Lo hanno definito un «genio». E addentrandosi tra le migliaia di pagine che ha scritto, è difficile non essere d’accordo. Etgar Keret, scrittore israeliano, una delle voci più brillanti della narrativa contemporanea, surreale e irriverente, vincitore di svariati premi anche per le sue attività di regista e sceneggiatore, sarà uno dei due protagonisti del dibattito in programma durante la prima giornata del Festival delle Culture di Ravenna. Venerdì 3 giugno alle 21,13, alle Arteficerie Almagià, insieme alla giornalista turca Ece Temelkuran darà voce al tema «Scrivere della propria terra. La narrazione della realtà». Citare tutta la sua produzione letteraria è un’operazione lunghissima: si potrebbero nominare «Sette anni di felicità», «Un intoppo ai limiti della galassia», «All’improvviso bussano alla porta». Ma non sarebbe, comunque, sufficiente.
Etgar Keret, ci dice tre buone ragioni per cui vale la pena vivere in Israele e tre altrettanti validi motivi per cui non ne vale la pena?
«Una buona ragione per vivere in Israele è che si è molto a contatto con Dio, non importa se si è di religione ebraica, cristiana o musulmana: ci si sente molto vicini alle proprie radici spirituali. Una buona ragione per non viverci, invece, è che si è troppo vicini a quei pazzi fondamentalisti che credono che il loro Dio sia meglio di quello degli altri. Un altro motivo valido per restare in Israele è che si vive in un mix unico e molto ricco di pensiero antico e tecnologie d’avanguardia: un cocktail di spiritualità e cultura occidentale e medio-orientale. Poi c’è un’altra ragione per cui non vale la pena restare qui: questa è una società che invece di lavorare su nuove strategie e connessioni, sembra voler coltivare, il più delle volte, vecchi rancori e vecchi sospetti. Vivere in Israele, però, significa avere intorno tonnellate di storia: ogni pietra e ogni albero ci raccontano qualcosa sulle nostre fondamenta storiche. Infine, non bisognerebbe vivere in Israele perché di storia, in realtà, ce n’è troppa: ogni pietra sulla quale ti vuoi sedere è un artefatto storico e ogni albero sul quale vuoi urinare, per qualcuno, è sacro. Con così tanta storia e con un passato così epico, è quasi impossibile trovare spazio per un briciolo di presente».
È naturale, per lei, mantenere uno sguardo ironico, come ben si evince dai suoi libri, sulla realtà del suo Paese?
«Quando la realtà intorno è troppa, l’ironia è l’unico modo per affrontarla. Per me l’ironia è un meccanismo di difesa, mi consente sia di fare esperienza della realtà che di prenderne le distanze, riflettendoci su. Solo attraverso una prospettiva ironica posso davvero comprendere i miei sentimenti e i miei pensieri».
Spesso, nei suoi racconti, emergono temi come l’auto-inganno e le bugie: è necessario mentire a se stessi per sopravvivere e condurre una vita il più possibile serena?
«Sento che la maggior parte delle “verità” che incontro in questo Paese sono solo narrazioni soggettive dei vari gruppi che si raccontano le proprie versioni dei fatti, escludendo le altre. Da narratore compulsivo quale sono, so quanto sia importante raccontare storie ma, allo stesso tempo, so che una storia, non importa quanto realistica, è appunto solo una storia che si potrebbe raccontare in altri modi».
Ha mai pensato a quanto sarebbero diversi, la sua letteratura e il suo modo di scrivere, se lei provenisse da un altro Paese?
«Così come non c’è vita senza ossigeno, non ci sono storie senza un conflitto. Il grande vantaggio di essere uno scrittore in Israele è che non devi metterti alla ricerca di conflitti, per confezionare una storia. Puoi anche solo sederti su una panchina per strada e i conflitti si paleseranno. Se sopravvivrai, puoi star certo che avrai una nuova storia da raccontare».