Il brutto vizio di storpiare i nomi delle persone straniere, una questione di identità

Qualche giorno fa un amico mi raccontava di quando, ai tempi della scuola, uno dei suoi professori fosse perfettamente in grado di pronunciare il nome Giulia, anche se scritto Xhulia, essendo la studentessa albanese, ma come per cinque anni avesse continuato a dire Xhemal, così come lo leggereste all’italiana, invece che pronunciare “gemal”.

Mi è capitato, il giorno del colloquio con un ragazzo che si era candidato per un progetto dell’associazione Refugees Welcome, per cui lavoro, che lui si presentasse come “Giallo”, nonostante il suo documento recitasse il nome Jallow.

«Ma perché dici che ti chiami Giallo?»

«Perché tanto nessuno pronuncia il mio nome nel modo giusto».


Stessa cosa al campo di calcio di mio figlio.

«Sono Ledi – mi ha detto un giorno una mamma albanese -. In realtà mi chiamo Enkeleda ma nessuno è mai riuscito a dirlo». Da quel giorno, l’ho sempre chiamata Enkeleda, cascasse il mondo.

Poi l’Ucraina.

In classe di mio figlio, ad aprile, è stata inserita una bimba di Kiev.

«Si chiama Susanna», mi ha raccontato lui entusiasta, il primo giorno.

«Ma sei sicuro?».

«No mamma, veramente si chiama Snishana, ma nessuno lo impara, allora lei ha deciso di far prima, si fa chiamare Susanna».

Nadeesha Uyangoda, la scrittrice di origine srilankese che anche Parola Aperta ha intervistato, in un bellissimo articolo di qualche anno fa scrive: «Rifiutarsi di imparare a pronunciare un nome straniero, però, non riguarda solo la complessità o la lunghezza. Riguarda soprattutto il rifiutarsi di riconoscere una parte fondamentale dell’identità di una persona e, in questo senso, la si potrebbe anche considerare una forma di microaggressione che va a ledere la dignità di chi quel nome porta. Succede infatti che le persone con nomi non convenzionali siano stigmatizzate a punto da finire per esserne imbarazzate, o da sentirsi in dovere di cambiarlo pur di essere accettate dall’ambiente in cui si trovano a vivere».

Un’immagine del Festival delle Culture 2022 di Ravenna (foto di Luca Gambi)

Ecco, a me piacerebbe che ognuno venisse chiamato con il proprio nome, anche se ci costa fatica imparare la pronuncia esatta, anche se dobbiamo ripeterlo qualche volta prima di ricordarlo per bene, anche se è lungo, anche se ha un suono poco familiare, anche se…

Perché Youssef si chiama proprio così. Non Giuseppe, non Joshua, non tutto quello che ci può venire in mente pur di non dirlo come si deve.