Il bimbo siriano di Massini, il torneo di Refugees Welcome e noi che vorremmo essere proprio dove siamo

Questa mattina mi sono svegliata e ho trovato, su WhatsApp, un messaggio di mio padre con il link dell’ultimo monologo di Stefano Massini a Piazza Pulita. Parla di Wael, un bambino siriano che finisce per suicidarsi perché ne ha passate troppe: la guerra, la migrazione forzata in Turchia, le violenze sulla madre e infine il razzismo, perché che cavolo ci vengono a fare questi siriani qui, se ne stessero a casa loro.


La voce e la narrazione di Masini mi hanno riportata al Festival delle Culture 2022, quando è venuto a parlare di caporalato e sfruttamento lavorativo e io, da dietro una colonna dell’Almagià, lo ascoltavo incantata. Mi hanno ricordato anche quando l’ho inseguito fuori per una piccola pillola video che ci lasciasse traccia dei contenuti del suo intervento, e mentre pensavo mi mandasse a quel paese ha detto: “Certo che la facciamo questa intervista”.


Oggi è una giornata speciale, perché oltre venti ragazzi che insieme alle mie colleghe seguo per l’associazione Refugees Welcome Italia si riuniranno per il primo torneo di calcio a Ravenna. Ieri sera abbiamo contato i Paesi: Somalia, Pakistan, Marocco, Bangladesh, Ghana, Mali, Gambia, Senegal, Togo. Organizzarlo, come si direbbe, è stato un gioco da ragazzi. Ci basteranno una palla, davvero, e un po’ di voglia di stare insieme. Rideremo, sicuro, e metteremo un’altra toppa alla nostalgia. Perché sì, lo dice Abdulrazak Gurnah in «Sulla riva del mare» e lo ripeteremo anche questa mattina alla Classense durante l’incontro con Nicoletta Brazzelli: «È un posto triste, il paese della memoria, un deposito buio con pavimenti marci e scale arrugginite dove a volte si passa il tempo, frugando tra cose abbandonate».

Ecco, tutto questo è nella patina che vediamo ogni giorni negli occhi dei ragazzi: è con M. che la notte fatica a dormire perché gli passa davanti la notte in cui ha viaggiato sotto un camion, è con F. che ha perso sua madre, con A. che è stato rimandato indietro decine di volte, a suon di botte, al confine tra la Bosnia e la Croazia.

Allora, invece del «se ne stessero a casa loro», noi vorremmo dire quanto siamo felici di essere qui, a casa nostra, dove abbiamo tutto e ci lamentiamo ogni giorno, proprio insieme a loro, a cui bastano a volte uno sguardo, una mano, una palla.