Da oggi, per tre puntate, Parola Aperta pubblica la testimonianza di Adnan Nasar, pachistano, 18 anni, che al suono di «il mondo deve sapere» ha scelto di raccontare il suo viaggio migratorio fino all’Italia: mesi e mesi di privazioni e fame, lavori sottopagati e respingimenti da parte delle forze dell’ordine, violenze fisiche e psicologiche. Il viaggio di un giovane ragazzo che, per salvare se stesso e la sua famiglia, intraprende come molti un’avventura pericolosa e degradante, dove le gambe vanno avanti, non si sa bene come, spinte dal bisogno di farcela, di arrivare a Trieste nonostante tutto. Spesso, ma non ancora abbastanza, si parla di «rotta balcanica». Quella rotta è tutta nelle parole e nei ricordi di Adnan.
«Lo vedi questo video? Quanto ero piccolo…Avevo solo 13 anni, forse 12, non me lo ricordo nemmeno. Ero a un matrimonio. Dopo una settimana, sono partito.
Sono nato a Mandi Bahauddin, in Pakistan. Ma con mia madre, mio padre e i miei due fratelli vivevo a Kharian, vicino a Gujrat. Quella mattina c’era il sole, io avevo mangiato solo un chapati e un uovo, nello zaino avevo messo dei dolci, dell’acqua, la fotocopia del documento di mio padre, una maglia e un paio di pantaloni.
Ho salutato tutti e ho preso un autobus per arrivare a Taftan, al confine con l’Iran.
Era stato mio padre e chiedermi di partire per l’Italia. Lavorava come muratore per cinque euro al giorno. Anche mia madre lavorava, puliva e serviva nelle case dei ricchi. Io l’avevo scoperto per caso, un giorno che ero in giro. Lei aveva negato, mi aveva detto che stava cercando mio padre. Invece avevo capito che, per farci mangiare, si era messa a lavorare. In Pakistan non è dignitoso che una donna non stia a casa, significa che la famiglia non ce la fa. Lei si vergognava, a dirmelo. Allora non era ancora malata, non potevo immaginare che dopo qualche mese, mentre ero in Turchia, l’avrei persa senza nemmeno poterla salutare.
Io da due anni facevo il parrucchiere in un negozio, guadagnavo poco ma ero bravo e costante e mio padre, una volta svanito il progetto di aprire un’attività tutta mia, mi ha detto che aveva fiducia in me, che toccava a me andar via per salvare la mia famiglia.
Non sapevo che tipo di viaggio mi aspettava, allora ho cercato dei video su Youtube e mi sono spaventato: sarebbe stata lunga, dura, piena di insidie. Avevo paura.
A Taftan sono arrivato dopo almeno venti ore di viaggio, ho dormito in una casa abbandonata e di notte è venuto a prendermi un ragazzo con cui mio padre era in contatto, e che era stato pagato per portarmi in Iran. Ho viaggiato con altre venti persone su una macchina, lì la chiamavano Ki Danki. Ci abbiamo messo cinque giorni ad arrivare, sono finito in una casa, una specie di campo, dove si mangiava una sola volta al giorno e dove mi davano le botte, giorno e notte, perché mio padre avrebbe dovuto pagare di nuovo ma non pagava. Solo quando è riuscito a farlo, mi è stato dato un biglietto del bus per Istanbul, con tappa ad Ankara.
In Turchia sono rimasto sei mesi. I primi quindici giorni li ho passati per strada. Andavo nei mercati a cercare del cibo, dormivo al freddo, ero diventato magrissimo ed ero sporco, perché da tantissimo tempo non mi facevo una doccia. Un giorno un ragazzo pakistano, all’apparenza gentile, mi ha chiesto se volevo andare con lui in una casa dove vivevano altri dieci ragazzi. Mi avrebbe procurato anche un lavoro. Ho dormito due giorni, poi ho iniziato a lavorare in una fabbrica tessile.
Finalmente avevo un lavoro ma ero solo, terribilmente solo. I ragazzi che erano con me in Iran erano partiti prima o dopo di me. I ragazzi non vengono rilasciati dai campi in gruppo, sennò la polizia li mette dentro. Da soli, o in due, si è meno sospettabili.
Io mi fidavo di quel ragazzo che mi aveva trovato casa e lavoro. Peccato che lui mi prendeva la paga. Un mese avevo guadagnato 300 lire turche, lui si è offerto di andarmi a comprare dei vestiti, visto che io era senza documenti e non era il caso che uscissi. Ma quando è tornato, se li era intascati e me ne ha chiesti addirittura altri, con la scusa che mi aveva anticipato altre 50 lire di tasca sua.
Da quel giorno ho imparato a non fidarmi, a capire se mi stanno fregando. L’unica persona gentile, in Turchia, è stato un ragazzo afghano che ho incontrato poco dopo e che mi ha dato un posto nella casa in cui viveva con due ragazzi iracheni. Si chiama Momin, poi è tornato al suo Paese e l’ho perso di vista. Gli devo molto, mi ha trovato un altro lavoro sempre in una fabbrica tessile, dove lavoravamo 12 ore al giorno. E si assicurava, visto che era più grande di me e più esperto, che mi consegnassero lo stipendio.
Un giorno la polizia mi ha fermato per strada, io non avevo nessun documento, ho detto che ero marocchino e forse hanno pensato che vivessi lì con la famiglia, chissà.
Quando ho racimolato la cifra che mi serviva per partire per la Grecia, mi sono messo in cammino con altre persone. Ci ho provato tre volte, mi hanno respinto tre volte. Sono stato messo in una macchina dove era difficilissimo respirare, mi hanno spruzzato in faccia uno spray che per un po’ mi ha impedito di vedere. Quando mi hanno fatto scendere ho iniziato a strofinarmi gli occhi, la prima volta temevo di essere cieco, poi ho capito che lo fanno per far desistere le persone.
Io in realtà ci ho provato una quarta volta, anche se avevo appena preso le botte, come sempre, e anche se l’ultima volta mi avevano chiuso in una stanza buia, nel campo dove ero stato riportato. Ho pregato tanto Dio che mi portasse in Grecia senza rischiare la vita, che mi facesse continuare il viaggio. Con quindici persone abbiamo scelto di camminare per una settimana, percorrendo un’altra strada, e abbiamo anche scelto di metterci in cammino a un altro orario diverso rispetto al solito.
Ce l’abbiamo fatta. Ho dimenticato la città dove sono stato per sette mesi. Ma lì ho lavorato un po’ dappertutto: nella raccolta dei pomodori, nella raccolta delle arance, nel confezionamento delle bustine di tè.
(…continua)