Il 5 aprile Guido Barbujani, autore di «Sono razzista, ma sto cercando di smettere» (Laterza) e «Come eravamo» (Laterza), sarà ospite alla biblioteca Classense (ore 18) nell’ambito di Scritture di frontiera per dialogare con Matteo Cavezzali, ideatore della rassegna letteraria, in merito ai suoi ultimi due libri. In «Sono razzista, ma sto cercando di smettere» Barbujani, tra i più importanti genetisti d’Europa, affronta il tema delle differenze, scritte un po’ nel nostro DNA. E moltissimo nella nostra cultura, nei tanti luoghi comuni dove andiamo a inciampare ogni giorno, nei pregiudizi che ci guidano attraverso le piccole e grandi vicende della vita e che ci portano a subire, dire, fare o semplicemente pensare cose razziste.
Nel suo libro «Sono razzista ma sto cercando di smettere», lei afferma che nonostante sia appurato che non ci siano razze, il sentimento del razzismo è intrinseco a noi. In che senso?
«Intrinseco forse no, ma penso che ne siamo tutti potenzialmente portatori. Classificare gli altri in due categorie, “noi” oppure “loro” è semplice e ha una lunga tradizione, non solo presso i poveri di spirito. Nell’Atene del quinto secolo, per Pericle e Tucidide, per Platone e Euripide, se non eri greco eri barbaro. Qualcuno pensa addirittura che l’evoluzione possa aver promosso questo atteggiamento. Nel mondo brutale abitato dai nostri antenati preistorici, decidere rapidamente se uno sconosciuto era un possibile alleato o un possibile nemico poteva fare tutta la differenza fra la vita e la morte. Essere consapevoli che questi meccanismi mentali non riguardano solo gli altri, ma anche noi, è un primo passo per cercare di liberarcene».
Chi è dunque, oggi, il “razzista”?
«Qualcuno, appunto, che non ha fatto lo sforzo di liberarsi di questa diffidenza ancestrale: perché non ci ha mai pensato su o, più spesso, perché gli semplifica la vita o gli conviene. Prendersela in astratto con un’intera categoria di persone (gli africani, gli islamici, gli immigrati, i meridionali; ma anche i vecchi, le donne, i tifosi di un’altra squadra) ci risparmia la fatica di formarci un giudizio concreto sulle singole persone e ci offre un facile bersaglio contro cui sfogare la frustrazione e la fatica di vivere».
Le differenze fanno parte della nostra cultura, dei luoghi comuni e pregiudizi che fanno parte di noi: in che modo possiamo liberarcene?
«Direi che non dobbiamo liberarci delle differenze (e comunque non potremmo), ma comprenderne le origini e, per quanto possibile, abituarci a convivere con loro. Nel mondo chiuso del piccolo villaggio di metà del secolo scorso forse (forse) il problema non esisteva; oggi, nelle società aperte e multiculturali in cui viviamo, si pone con forza ed è impossibile eluderlo o sperare di regredire al mondo della nostra infanzia».
Come rivolgerci alle nuove generazioni e ai nostri figli per sradicare certi modi di pensare?
«Non è semplice. Le prediche non funzionano. Può essere molto istruttivo viaggiare, andare all’estero, e lì magari essere vittime di piccoli soprusi, renderci conto che anche noi possiamo essere i barbari per qualcun altro. Se per una volta subiamo sulla nostra pelle i pregiudizi degli altri, sarà difficile poi dimenticarcene».
Da una recente indagine fatte nelle scuole, è emerso che i giovani sono molto più aperti all’affermazione di certi nuovi diritti, come le unioni tra coppie dello stesso sesso, ad esempio. Anche secondo lei, è in atto un cambiamento?
«Sì, così come c’è una maggiore sensibilità ai temi dell’ambiente e del cambiamento climatico globale fra chi ha vent’anni o giù di lì. Il problema, grande, sta nella ridotta capacità di questi soggetti di influire sulle scelte politiche di fondo, che restano saldamente in mano alle vecchie generazioni».
Sulle recenti tragedie prima di Cutro e ora sulle acque Sar libiche, qual è la sua posizione?
«Non credo ci siano dubbi che la migrazione dal sud al nord del mondo sia un fenomeno globale, planetario, e che in futuro potrà solo accentuarsi. Secondo il premio Nobel per l’economia Paul Krugman, neanche ai tempi dei faraoni c’erano le differenze di reddito che ci sono oggi, e il divario fra paesi ricchi e paesi poveri tende costantemente ad allargarsi. Perciò sarebbero urgenti iniziative di ampio respiro, coordinate fra i paesi europei, che invece vengono sempre procrastinate. Nel frattempo, ha una sua perversa efficacia la propaganda di chi tratta il problema dell’immigrazione come una questione criminale, risolvibile con la chiusura dei porti, il rimpatrio dei migranti e più anni di galera per gli scafisti. Penso quindi che si sia scelto di lasciar morire della gente per mandare un messaggio alla parte più becera dell’elettorato».