Quando ha sentito il nome Geo Barents, la nave umanitaria di Medici senza Frontiere che stava per approdare a Ravenna, Youssef Mouftakir non ha potuto che avere un sussulto del cuore. E trovarsi dall’altra parte, non più un migrante in salvo ma un mediatore linguistico per chi sbarcava, è stata tra il 2 e il 3 gennaio scorso un’esperienza di un certo impatto. Vent’anni, origine marocchina, pugile, Youssef ci ha raccontato il significato di quelle ore al Pala De André, di quei volti, di quegli occhi, di quelle parole.
Da migrante a mediatore: come hai vissuto questa esperienza?
«Era una cosa alla quale tenevo molto. Avrei già voluto partecipare a uno dei primo sbarchi delle navi umanitarie qui a Ravenna, ma il momento giusto era ora. È stata una bella esperienza perché mi sono visto da fuori. Ero di uno di loro, una persona che lascia la propria terra e mette a rischio la propria vita. Questa esperienza mi ha fatto capire che ho usato il mio tempo bene, che non l’ho sprecato, perché altrimenti non avrei potuto avere questa opportunità di tradurre dall’arabo all’italiano, e viceversa. Ho pensato molto al fatto che condividiamo il fatto di essere umani, tutti abbiamo un destino finale comune e per questo fare del bene agli altri è molto importante. Il mio scopo non era mostrarmi superiore, con arroganza, ma pormi in modo modesto davanti agli altri: anche io sono venuto dalla Libia, so bene che cosa significa».
Ti ha toccato qualche aspetto, in particolare, durante i colloqui per la Questura?
«Le persone che parlavano arabo erano tante, provenienti dalla Siria e dalla Palestina. Sono persone che hanno sofferto tanto, specialmente chi sta vivendo la guerra in prima persona, ma nonostante questo hanno il sorriso. Anche se hanno perso familiari, hanno ancora una speranza e molta gratitudine per la vita e per Dio. Questo mi ha permesso di guardarmi dentro e capire che i miei problemi in confronto sono di minor importanza».
Ti piacerebbe ripetere un’esperienza simile?
«Sí, è stata un’esperienza nuova, di crescita ma spero di potermi rendere ancora più utile, intendo umanamente. Vorrei poter dare un aiuto più concreto».
Del tuo viaggio migratorio cosa senti di raccontare?
«Una cosa che mi è rimasta impressa e vive ancora con me è che sono ancora vivo. Ogni cosa che ho fatto, l’ho fatta davvero, l’ho passata. Mi fa sorridere ma anche piangere, se ci penso profondamente. In ogni momento senti la morte, te l’aspetti, la vedi. Hai solo acqua davanti a te, pensi al modo in cui dovrai morire. Quando nella barca sulla quale stavo viaggiando entrava acqua, avevo l’immagine di mia madre davanti a me. Pensavo al modo in cui sarei morto. Poi il salvataggio, uno shock: non sai se è un sogno o realtà, se sei vivo oppure morto».
Hai conosciuto qualcuno di importante, durante il viaggio?
«Sí, Y., una persona che posso veramente definire un amico. Ci siamo conosciuti in Libia, abbiamo viaggiato insieme fino in Italia. Siamo vissuti e morti insieme. Mi ricordo che un giorno avevo freddo e lui mi ha dato la sua giacca dicendomi “quello che fa male a te, fa male anche a me”. Mi ha aiutato tantissimo, abbiamo condiviso tantissimo. Non potrò mai incontrare una persona come lui. Abbiamo preso strade diverse ma un giorno è venuto a Ravenna, ci siamo sentiti e incontrati. È passato tempo ma noi eravamo gli stessi. Anche se ci incontrassimo negli anni, saremo sempre gli stessi».
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
«Realizzarmi sia da un punto di vista lavorativo, raggiungendo una stabilità economica per aiutare la mia famiglia, che da un punto di vista personale. Ho un sogno: diventare campione del mondo di pugilato. Per farlo mi dovrò impegnare tanto, sia come sportivo ma anche come musulmano, credendo ancora più di quanto stia facendo ora. Sono a metà tra cuore e pensiero».