I fula della Guinea Konakri hanno un detto:
«Anche se prendi tua madre sulle spalle e la porti a piedi fino alla Mecca, non avrai ripagato neanche un centesimo di quello che lei ha fatto per te».
Ci sono viaggi migratori con dei dietrofront. Come quello di Ibrahima Balde, che a tredici anni lascia il proprio Paese per raggiungere l’Europa ma quando è in Liberia a lavorare, è costretto a tornare indietro perché la madre non sta bene. La stessa madre che al telefono gli ha detto «tutto a posto», la stessa madre che lui trasporta in spalla fino all’ospedale, proprio come aveva fatto fino a poco prima con i carichi di frutta. La stessa madre che è costretto a salutare di nuovo, perché il fratellino Alhassane è partito a tredici anni per l’Europa, senza dire nulla, e lui lo deve ritrovare.
Ibrahima Balde è l’autore, insieme al poeta e giornalista basco Amets Arzallus Antia, del libro edito da Feltrinelli «Fratellino», una memoria intensa di una delle rotte migratorie più battute, attraverso il deserto e poi il mare Mediterraneo.
Nell’esperienza di Ibrahima ci sono i grandi temi di chi cerca di migliorare il futuro della propria famiglia sradicandosi e fuggendo via lontano: la responsabilità di quel mandato familiare che non è solo economico («Fai tutto il possibile perché tuo fratello possa continuare a studiare»), il traffico di migranti («Paga e andrai in Algeria. Se non paghi ti ammazziamo»), lo sfruttamento e le torture, la Libia («una grande prigione, è difficile uscirne vivi»). Ma anche il peso del trauma, quello zaino che ti porterai dietro per sempre, e che Ibrahima spiega così: «Io non volevo parlarti di queste cose, perché quando le racconto comincio a vedere, davanti ai miei occhi, tutto quello che ti sto spiegando. Tu adesso sei qui, e mi ascolti, ma io sono di nuovo là con la mia carne, e quando lo racconto, inizio a viverlo di nuovo».
E anche la malattia mentale, «quando lo spirito inizia a girovagare», lo spirito di persone perse, rassegnate, ancora vive ma che forse preferirebbero essere morte. Anche quando sono già arrivate in Europa. Perché ne hanno viste, vissute, subite troppe. Come Ousmane, arrivato a Irun, nei Paesi Baschi: «Guarda (…), pure oggi seduto sulla sua sedia di legno, lo vedi? Cosa starà pensando? Riuscirà a dimenticare tutto quello che ricorda?».