«Se penso a quando li ho visti la prima volta, mi vengono i brividi. Hanno parcheggiato la macchina sotto casa nostra e sono venuti verso di noi. Avevano ancora addosso la polvere della guerra. Hanno viaggiato per trenta ore senza mai fermarsi». A parlare è Esther Deandrea, 48 anni, che vive a Ravenna e che, insieme a sua madre Licia, ha deciso di aprire la porta di casa a due donne ucraine e ai loro tre figli, un’accoglienza avviata sotto l’egida dell’associazione Refugees Welcome Italia: «La scelta finale è stata di mia madre – racconta Esther – perché è sua la casa di Lido Adriano, in cui non vive più, ma dove ci sono tutte le sue cose. È la casa di famiglia, non quella estiva dove ci si va d’estate, ma l’abbiamo aperta senza pensarci due volte».
Quadri, foto, ricordi hanno accolto due mamme con i loro figli di 8, 11 e 13 anni: «Appena ci siamo visti, ci siamo abbracciati. Dai loro occhi si intuivano lo shock e la sofferenza che hanno vissuto. Hanno visto morire i loro vicini di casa e, subito dopo aver riempito due borsoni con lo stretto necessario, si sono messe in viaggio percorrendo 3mila chilometri».
Il contatto è avvenuto attraverso una coppia di amici in comune che vive sul territorio romagnolo, lei ucraina e lui italiano: «La prima cosa che ci hanno detto è stata “grazie”. Il primo giorno non abbiamo parlato molto, abbiamo fatto vedere loro dove erano gli asciugamani e le lenzuola di ricambio, come funzionano l’acqua e il riscaldamento. Volevano assolutamente che facessimo le letture dei contatori, perché vorrebbero pagarci i consumi, ma assolutamente no, piuttosto non andiamo in vacanza».
Anche il resto della famiglia di Esther, compresi i figli adolescenti Emma e Giorgio, sono stati coinvolti: «Noi facciamo colazione ascoltando le notizie della rassegna stampa e commentandole. Il tema della guerra, anche per i ragazzi, è un argomento pressante. Abbiamo deciso di renderci utili come possiamo».
I profughi ucraini sono arrivati qualche settimana fa, di sabato: «Appena abbiamo saputo del loro arrivo imminente, ci siamo organizzati. Mia madre è andata a sistemare la casa e a fare un minimo di spesa, per far sì che trovassero un luogo caldo e accogliente. La domenica, dopo il loro arrivo, siamo andati tutti a incontrarli nuovamente e li abbiamo trovati più rilassati. Siamo riusciti a comunicare sempre attraverso l’amica in comune. Loro parlano poco inglese. Provengono da una piccola città del Sud dell’Ucraina. Il marito di una delle due donne, che lavora in mare su una piattaforma sei mesi all’anno, era al lavoro quando sono partite ed è riuscito ad arrivare qualche giorno fa, mentre il marito dell’altra è rimasto in Ucraina ed è stato impiegato nei soccorsi: fa avanti e indietro Ucraina-Polonia per prendere dei medicinali da portare nel suo Paese. Da quel che ho capito, lui vuole rimanere lì e loro vogliono tornare il prima possibile. Le donne sarebbero rimaste ad aiutare, se non fosse stato per salvare la vita dei figli. Ci hanno parlato dei loro forti legami con i russi, con parenti e amici con cui si vedevano spesso. Rispetto a quanto sta accadendo hanno aggiunto che “Putin è matto e ci tiene tutti bloccati con la mano sul pulsante della bomba atomica”. Hanno comunicato con poche parole, ma con tanti sguardi».
Nel frattempo si cerca di organizzare il tempo da trascorrere a Ravenna: «In un primo momento sembrava che i bambini dovessero frequentare le nostre scuole, ma poi hanno optato per la DAD con le loro scuole. Uno di loro gioca a calcio e l’idea è quello di farlo entrare nella squadra di mia figlia. Tendiamo a lasciare loro tempo e spazio e di andare se hanno bisogno. Intanto, stiamo pensando che forse in casa potremmo stringerci un po’ e liberare la stanza di uno dei ragazzi per accogliere un’altra donna con un bambino. È una cosa molto facile aprire la propria casa a chi ne ha bisogno. Spero che anche altri lo facciano, non ci vuole molto».