«EO straniero e non mi avete accolto», nelle peripezie di un asino c’è il rifiuto dell’altro

Le bestie siamo noi. Noi umani. Questo sembra suggerisci EO (da pronunciare in onomatopea Hi-oh, Hi-oh), l’asinello migrante di Jerzy Skolimovsky – il corsaro polacco al diciottesimo lungometraggio in quasi sessant’anni – che dopo il Premio della Giuria di Cannes 2022 e gli applausi al 40° Torino Film Festival, è ancora in partita, complicata per la verità, per gli Oscar 2023 come miglior film straniero.

Una legge animalista lo libera dallo sfruttamento all’interno di un circo. Così, nonostante l’affetto per la compagna di numeri Kasandra – che lo cercherà e lo piangerà ovunque – comincia per lui nomadismo scombiccherato e angoscioso, zigzagando per l’Europa. Di valle in valle, di strada in strada, il ciuchino finisce catturato, sfruttato, isolato, traghettato da padroni diversi, accumunati tutti dalla scarsa (se non nulla) empatia e dalla fame di (mal)affari. La traversata ‘terreste’, però, transita anche per il nostro Paese, in una villa in cui lo conduce un giovane prete in crisi (Lorenzo Zurzolo), prima di darsi, ancora, alla macchia.

Sin dall’incipit circense, infatti, si intuisce come EO guardi negli occhi Au hasard Balthazar (1966), meraviglia di Robert Bresson che folgorò in gioventù Skolimovsky. Il modello, però, serve solo come pietra focaia per far scintillare un film debordante e umanissimo, tessuto come una partita a scacchi tra verdi campi lunghi e accorati primi piani sul ciuchino, dove il picaresco delle peripezie è impastato (e insabbiato) dalle scorribande visionarie della messinscena unita ad un’estetica sperimentale dell’immagine, ingemmata d’un formalismo debordante e vertiginoso.

Ne esce fuori una chiamata alle armi per riconciliare uomo e animali, uomo e natura. E un road movie che umanizza l’asino svelando la bestialità dell’umanità: EO, infatti, non è solo un infaticabile peregrino, che fiuta la sciagura e scappa, ma sa ascoltare, osservare, interiorizzare, come e più degli umani/ominidi. Skolinosky, piazzando la camera nella sua testa, incollandola ai suoi occhi, gli restituisce senno, memoria, dolore. Una peripezia dopo l’altra, dunque, si almanaccano gli stati emotivi di EO. Anche se il dramma flirta con il grottesco e la violenza umana intorno all’animale deborda, nei modi più impredicibili.

Non vi aspettate una narrazione lineare, però. L’andamento è ora rapsodico ora compassato, ora accelerato, ora in picchiata, ma sempre al passo dinoccolato del suo protagonista. La partitura della sceneggiatura è lirica (che bello il contrasto tra EO ingabbiato e i cavalli che scorrazzano, criniere al vento) e pentagramma, in modo autocompiaciuto, un film semi-muto, affidandolo alla potenza simbolica del suo impianto fono-visivo: a Skolinowsky per professare il suo umanesimo animalista basta far urlare le immagini. EO non ci scuote con le parole, ma con la reciprocità dei metalinguaggi che rendono cinema il cinema; l’uso intensivo del colore (blu sirena, ma soprattutto rosso sangue) per verbalizzare l’interiorità del mulo, la musica tarata sulla sua espressione dell’asinello senza accondiscendenze per l’orecchio umano. Più drammaturgia che accompagnamento.

Di più: le sventure di questo asinello, il diverso, per antonomasia, in cerca di patria e affetto, metaforizzano (è questa la chiave per spiegare frammenti -come quello italiano- del film, altrimenti fumosi) le fratture di una società smembrata, arroccata in se stessa, che criminalizza l’integrazione e legalizza il respingimento dell’altro: «I miei film si occupano di outsiders, dei dimenticati dalla società, di coloro che vivono ai margini», aveva affermato il regista ritirando il Leone d’oro alla carriera al Festival di Venezia del 2016. Ora ritorna in groppa ad una mina vagante, in fuga da una società inferocita e sanguinosa, ragliando il suo dolore nel cuore dell’Europa. EO straniero, e non mi avete accolto.