Era il 2018 quando in Italia nasceva Refugees Welcome Italia, una onlus nata per promuovere nel nostro Paese “l’inclusione sociale di persone rifugiate e migranti”.
Tra i tanti progetti sbocciati in questo quinquennio spicca quello di Mentoring: un programma di qualche mese studiato per permettere a volontari e volontarie di sostenere persone rifugiate o appena arrivate in Italia. L’obiettivo è, infatti, consentire soprattutto a ragazzi e ragazze spesso in età adolescenziale, di inserirsi a pieno nel nuovo contesto e raggiungere autonomia.
Enrico Bosi, tecnico informatico ravennate, è uno dei volontari che ha deciso di spendersi per la causa. Da pochi mesi dona il suo tempo al diciottenne Alhousain Drammeh, ragazzo originario del Gambia.
Una scelta nata perché “me ne parlò, qualche tempo fa, un mio amico che voleva fare volontariato per Welcome Refugees. – spiega l’attivista – . o nella mia vita ho del tempo libero e ho sempre fatto volontariato: tempo fa insegnavo italiano ai migranti appena arrivati in Italia. Dopo il corso di preparazione, mi hanno presentato il ragazzo”.
In cosa consiste il percorso da mentore?
“Dopo aver aderito a Refugees Welcome, ho seguito in videoconferenza quattro lezioni di formazione sui percorsi migratori, sul rapporto e sulle dinamiche che si instaurano tra mentore e ragazzo. Nel frattempo ho conosciuto Alhousain Drammeh. Ogni mese, poi, incontriamo una psicologa per confrontarci sull’esperienza. Inoltre posso sempre contare su Silvia Manzani e Benedetta Missiroli perché hanno già parecchia esperienza nel progetto”.
Il senso, oggi, di questa tua scelta.
“Per me la cosa più bella è poter offrire un contributo a persone che hanno bisogno senza per forza tirar fuori dei soldi: molte associazioni di volontariato te li chiedono per portare avanti i progetti, ma non vogliono una tua partecipazione diretta. Invece è molto bello dare una mano in concreto”.
Il percorso è iniziato da pochissimo, ed è il primo ragazzo che metti sotto la tua ala protettiva.
“Sì, ad aprile ho conosciuto Drammeh, che era diventato maggiorenne a gennaio scorso. Viene dal Gambia, è partito da solo, ha chiesto aiuto a Refugees Welcome, cercava un uomo, e lo hanno affidato a me. Ho cominciato ad aiutarlo con la lingua perché non parlava benissimo l’italiano all’inizio. Ci siamo conosciuti e raccontati piano piano. Oggi ci sentiamo tutti i giorni. Poi a metà giugno ha espresso il desiderio di lavorare”.
E tu cosa hai fatto?
“Ho guardato gli annunci, poi insieme siamo andati negli stabilimenti balneari a lasciare un po’ di curriculum (un gran bel pomeriggio trascorso a ridere e parlare). Una settimana dopo era assunto per mezza stagione come lavapiatti. Lui era parecchio contento. Ha ripreso anche la scuola, e qualche giorno fa ha cominciato un corso d formazione per saldatore e carpentiere di 400 ore finanziato dalla Regione Emilia-Romagna, Unione Europea e altre istituzioni”.
Un momento decisivo per il vostro rapporto?
“Quando c’è stata l’alluvione a Ravenna, l’ho fatto partecipare di persona: ha visto da vicino i disastri capitati sul nostro territorio. Ci ha aiutato a pulire e sistemare locali alluvionati per un pomeriggio intero. Alla fine si è meritato una cena. Io cerco sempre di coinvolgerlo con l’intento di renderlo partecipe nel mio quotidiano: l’ho fatto conoscere alla mia fidanzata, condividiamo il tempo libero, ripassiamo i compiti di scuola”.
Come ha lavorato in te l’esperienza con Drammeh? Ti ha cambiato la percezione del fenomeno migratorio? Pensi ti abbia tolto delle paure inconsce?
“Io appartengo a una generazione cresciuta senza immigrati. A scuola, gli unici stranieri erano i figli dei giostrai nelle feste paesane che per una settimana venivano in classe da noi. Ho avuto il primo impatto con gli extracomunitari a 25 o 30 anni, insegnando italiano a dei senegalesi. Loro erano completamente fuori regola, senza tutele, avevano paura anche ad uscire fuori. Con Drammeh, però, mi sono accorto che non c’è paura del diverso: lo vedo come una persona che fa parte della mia sfera affettiva e famigliare, un amico con cui mi relaziono volentieri. Con lui ho superato paure che pensavo di avere”.
Che ruolo pensi di aver assunto nella sua vita di Drammeh?
“Io lo considero uno pseudo-nipote. Sai che gli ho chiesto di promettermi di non usare mai droghe o alcool? Non pensavo di dover fare un discorso del genere a qualcuno. Insomma, cerco di essere suo amico, ma per l’età che ho, potrei essere fratello di suo padre, quindi uno zio che è una figura molto importante nelle famiglie africane”.
Se dovessi scegliere un momento simbolo del vostro rapporto?
“Quando abbiamo trascorso una giornata insieme a Roma per un evento pubblico: siamo stati insieme dalle 7 a mezzanotte. Ma anche quando l’ha chiamato lo stabilimento balneare per farlo lavorare è stato bello, come quando mi ha chiesto di accompagnarlo per iscriversi a scuola, o quando mi ha chiesto pareri e aiuto per risolvere un problema fisico ad una gamba causato durante una partita di calcio. Sono tutte forme di fiducia che piano piano riesco a conquistarmi”.
Cosa sogna un ragazzo di diciott’anni che viene da solo dall’Africa in Italia?
“È a suo agio con il nostro stile di vita, gli piace stare a Ravenna ma vorrebbe avere una situazione lavorativa stabile. Nel frattempo ha mandato dei soldi a casa per sostentare i genitori. Ha esigenza di un lavoro perché sa che così gli si aprirebbero tutte le opportunità. Credo in futuro vorrebbe avere un suo appartamentino”.
Le sue passioni?
“Gli piace il calcio, tifa Chelsea e in Italia per l’Inter. Spesso mi parla delle partite che segue in streaming, mi spiega le strategie. Gioca anche lui a calcio in una squadra locale. Gli avevo anche trovato una squadra che lo voleva vedere giocare ma lui ha preferito rimanere dov’è! Spesso mi dice di andarlo a vedere ma non sono ancora riuscito a farlo. Succederà”.
Che difficoltà incontri, se le incontri, nella relazione con lui?
“Non è un ragazzo molto espansivo, così aspetto che sia lui ad aprirsi. Non voglio sembrare uno che vuole curiosare nel privato. Sento di dovergli dare delle dritte: ha solo diciott’anni, deve imparare ancora un sacco di cose e senza genitori al suo fianco può essere dura. Lui apprezza la mia amicizia, cerca sempre il confronto con me e ascolta i miei suggerimenti”.
La tua famiglia, gli amici, il vicinato come vedono questa tua scelta?
“Per adesso non l’ho detto a molti. Conoscono Drammeh la mia ragazza, alcuni miei amici e alcuni colleghi. Drammeh, infatti, non è mai venuto a casa mia, io sono andato solo una volta a casa sua. Viviamo tutto fuori casa. Per esempio, sul lavoro, ho spiegato la situazione al mio capo, gli ho chiesto una sala per farlo studiare e me l’ha fornita subito. I colleghi lo conoscono, lo accolgono con piacere, le centraliniste lo festeggiano ogni volta che viene. Tutti sanno cosa fa e cosa faccio io. Per cui l’atmosfera è molto positiva”.
Fuori dall’ufficio, però, non hai paura che possa essere discriminato? Se dovesse accadere, come reagiresti?
“Ammetto che un po’ di paura c’è. In genere noi italiani non riusciamo a capire bene il significato di questa parola, né cosa vuol dire subirne le conseguenze. Con Drammeh non è mai capitata una situazione così delicata. Immagino che cercherei di proteggerlo, di affrontare il ragionamento anche con l’autore della discriminazione se identificabile. Serve capire la situazione e ragionarci sopra per uscirne. Troveremo insieme la via migliore”.
Questo è un percorso di affiancamento a termine. Cosa farai quando finirà?
“Sinceramente non ci ho pensato. Di scadenze fisse non ne abbiamo, so che ognuno segue un ragazzo per un lasso di tempo definito. Mi dispiacerebbe se dovesse finire, ma posso capire quando mi diranno che Drammeh è autonomo e che è tempo di occuparmi di un altro ragazzo. Vorrà dire che il progetto ha raggiunto un buon obiettivo. Sono sicuro, però, che Refugees non mi vieterà mai di incontrarlo: questo rapporto resterà nel tempo”.