Ece Temelkuran al Festival: «Non mi piace essere definita un’esule»

Un nome ambitissimo per il Festival delle Culture 2022 di Ravenna. Ece Temelkuran, giornalista, scrittrice, analista politica turca, affiancherà l’autore israeliano Etgar Keret venerdì 3 giugno alle 21,15 all’Almagià per il dibattito «Scrivere della propria terra. La narrazione della realtà». Collaboratrice delle più grandi testate internazionali e autrice, tra gli altri di «Come sfasciare un Paese in sette mosse. La via che porta dal populismo alla dittatura» (2019). Temelkuran  nel 2012 è stata licenziata dal giornale «Habertürk» per aver riportato il massacro di curdi al confine tra Turchia e Iraq. Fatto che l’ha poi indotta a lasciare il proprio Paese. 

Temelkuran, lei ha scritto che negli ultimi dieci anni la Turchia ha giocato a scacchi con un piccione: che cosa intende?
«Molti, nei Paesi occidentali, pensano che il populismo di destra sia un problema che riguarda solo l’ambiente politico. Invece, una volta che l’ideologia si è impossessata del potere politico, danneggia la moralità. Corrompe la società ignorando le basi etiche. Questo, per me, significa giocare a scacchi con un piccione. Anche se sei un maestro dello scacchi, il piccione sparpaglia i pezzi, defeca sulla scacchiera e vola via orgoglioso, urlando di avere vinto. Questa mancanza di vergogna e questa spietatezza ti lasciano spaventato e paralizzato. Ecco perché non è facile avere a che fare con il pupulismo di destra, una volta che prende piede politicamente».

Ece Temelkuran fotografata da Joanna Paciorek

A lei non piace essere definita un’esule: come riesce a immaginare il suo futuro, dopo quello che le è accaduto?

«Una volta Brodsky disse che l’esule è una “creatura retrospettiva”, il che significa che si guarda indietro e le sue lacrime scorrono sulle scapole. Ecco perché io rifiuto questa definizione. A volte le parole ti rubano il destino. In un mondo nel quale la parola futuro suona apocalittica alla maggior parte delle persone, io credo che continuare a guardarmi il mio Paese non sia molto originale».

Dietro le sue aspre critiche alla Turchia di Erdogan e al fatto che sia solo una democrazia di facciata, si respira però l’amore per il suo Paese: come riesce a separare i sentimenti da un’analisi razionale della realtà?

«Non li separo. La Turchia è un Paese complesso, famoso per essere in grado di provocare i peggiori dolori a chi la ama di più. Questa condizione emotiva, così complessa, suona come una relazione sadomasochista ma non è nuova né per me, né per chiunque venga da lì. La Turchia è sempre stata ed è ancora un sogno che rema contro il corso della storia. È come una specie di malinconia, della serie, “avrebbe potuto essere molto bella”. Amare il Paese con malinconia ha anche I suoi vantaggi, non è insolito trovare persone come te, che ne amano il sapore».

La sua scrittura è cambiata, da quando ha lasciato il Paese? In che modo?

«Quando ho lasciato la Turchia, ho iniziato a scrivere in inglese. Ci sono varie ragioni, dietro questa scelta. La più importante è che scrivere in turco per me era un’operazione troppo emotiva. Troppe emozioni non sono indicate per chi, come me, è senza casa propria e deve sopravvivere così. Credo che l’inglese mi renda più distaccata, distaccata abbastanza per poter pensare bene».