Manca pochissimo all’ennesima udienza con cui, il 6 aprile, il tribunale di Monsura si pronuncerà (per l’ultima volta, si spera) su Patrick Zaki, studente dell’Università di Bologna incarcerato a Il Cairo dal 7 febbraio 2020 e rilasciato solo il 7 dicembre scorso in attesa di giudizio. Nell’attesa, abbiamo incontrato Gianluca Costantini, attivista e autore del disegno-simbolo della mobilitazione civile a sostegno del ragazzo, e recentemente anche di Patrick Zaki. Una storia egiziana (Feltrinelli, 2022, pp. 125), fumetto scritto a quattro mani con Laura Zappon (Rai 3 e Domani), tra le prime giornaliste a denunciare la detenzione del giovane egiziano.
Caro Gianluca, come nasce la collaborazione con Laura Zappon per questo fumetto?
«Nasce da un’idea di Laura: nel dicembre 2020 mi ha chiesto se fossi interessato a realizzare un libro sulla storia di Patrick, tutti e due per tutto l’anno avevamo lavorato sul caso io con il disegno, lei con le parole».
Che differenze ci sono, per un disegnatore, tra lavorare in solitaria e farlo, invece, con una giornalista?
«Lavorare con un’altra persona nella realizzazione di un libro vuol dire lavorare per più di un anno su un progetto e cercare di dare il meglio per quanto riguarda la propria parte. Questo libro unisce le mie competenze del fumetto con le competenze di Laura nel giornalismo. Ho lavorato spesso anche da solo, ma lavorare con gli altri ti fa avere nuovi stimoli e nuovi sguardi al racconto: io cerco sempre di seguire le idee dell’altro».
Recentemente hai affermato “io disegno solo chi scompare”. É questo lo scopo dell’arte, rischiarare le zone d’ombra della realtà che il potere occulta?
«L’arte non ha uno scopo preciso, ogni artista gli dà quello che reputa importante. In questi ultimi 15 anni sono stato interessato agli argomenti sociali e politici, soprattutto quelli che non ricevono visibilità perché poco di moda. Disegnare chi scompare vuol dire mettere una luce su una zona buia e vedere cosa c’è, e soprattutto tirare fuori chi è imprigionato in quel buio».
Entriamo nel fumetto: con uno stile semplice e lineare, il racconto più che all’azione dà ampio spazio ai volti non solo di Patrik ma di tutti protagonisti di questa vicenda, quasi a enfatizzare la dimensione emotiva e privata della storia, e mettere senza filtri il lettore di fronte al dolore delle persone. È così?
«Questa è una storia di persone semplici, da una parte Patrick, la sua famiglia e i suoi amici, dall’altra gli attivisti, i cittadini e i giornalisti. In mezzo ci sono io con il disegno. È una storia intima anche se ci sono molti personaggi, è la storia di un ragazzo sbattuto in una cella per 22 mesi, è di una grande mobilitazione popolare come non se ne vedevano da molti anni. Sì, alla fine di questo libro veniamo messi davanti al dolore ma anche alla possibilità di unirsi alle altre persone per raggiungere dei risultati».
Il fumetto, infatti, non dettaglia solo la prigionia di Patrick, ma anche la sua quotidianità: la famiglia, la passione per lo studio, le amicizie, l’università. Come dire, quello che è successo a lui può succedere a qualsiasi ragazzo come lui…
«È una storia simile alla nostra o dei nostri figli, una vita che si costruisce sul sogno di un futuro migliore, con tutte le tappe di una vita qualsiasi. Ma è anche la storia dura e crudele che devono affrontare molte persone nelle varie dittature in giro per il mondo, governi che agiscono solo con l’intimidazione e la violenza vietando qualsiasi diritto di libertà di espressione e di movimento. Per noi mandare un figlio a studiare all’estero è normale, fa parte del percorso, per loro andare a studiare all’estero è l’unica possibilità di poter realizzare quello che si sono prefissati nella vita: vivere».
La storia di Patrick, infatti, fa luce sulle persecuzioni di uno Stato, come l’Egitto, che conta ad oggi 60.000 detenuti politici, “la peggiore dittatura della storia moderna” per usare le vostre parole.
«Il Paese è un vero carcere a cielo aperto, dove ogni libertà democratica è vietata, questi ultimi 10 anni sono stati un’escalation di brutalità e violenza, le persone hanno perso ogni speranza, molti sono fuggiti, altri vivono senza vivere».
Perciò raccontare questa storia è importante per tutelare la vittima, ma anche forse per scongiurare un “effetto autocensura”, per evitare che i futuri Zaki smettano di studiare e denunciare dittature per paura di rivivere quello che ha vissuto Zaki. É d’accordo?
«Noi possiamo parlare per chi non può parlare, non parlerei di autocensura ma di censura totale di ogni idea. I ragazzi possono studiare all’estero, ma poi non possono più tornare, perché il governo egiziano è contrario che le persone studino in altri paesi. Parlarne aiuta a non far cadere nell’oblio un intero popolo e soprattutto serve a capire anche come prevenire che questo succeda anche a noi».
In Italia, diversamente da altri paesi, solo negli ultimi anni il grapich journalism sta prendendo piede. Quali sono i suoi punti di forza rispetto ad altre forme di giornalismo e quanto può impattare sull’opinione pubblica?
«Un po’ alla volta il graphic journalism si sta espandendo, escono più libri e storie più brevi nei settimanali e quotidiani, è un nuovo genere del linguaggio del fumetto che crea un livello di lettura completamente diverso dall’articolo giornalistico. Aggiunge più fattori che aiutano a comprendere ed entrare nell’argomento, costruisce un nuovo livello conoscenza dato dal disegno».
Per chiudere: progetti futuri? Sta lavorando a un fumetto su qualche altro “scomparso”?
«In questi giorni sto realizzando delle piccole storie per l’Espresso, sempre con Laura Cappon, sull’Ucraina. Per quanto riguarda gli scomparsi li disegno ogni giorno sul mio profilo Twitter».