«Di trafficanti, scafisti, barche sempre più pericolose e un sistema storto alla radice»

«Qui a Lampedusa, poche ore fa, è stato recuperato un corpo incagliato tra gli scogli. Se dopo dieci anni succede ancora, significa che quel “mai più” pronunciato nel 2013, dopo il naufragio che ricordiamo in questi giorni, non ha avuto senso. Significa che ci siamo abituati, che dobbiamo aspettare altre stragi, come quella di Steccato di Cutro, per accorgerci che i migranti non sono numeri, non sono corpi, ma persone». La giornalista di RaiNews24 Angela Caponnetto ha introdotto così, ieri, la tavola rotonda sul traffico di esseri umani organizzata all’interno di «A Europe of rights», i tre giorni di eventi del Comitato 3 Ottobre per ricordare i dieci anni dal naufragio in cui persero la vita 368 persone. Un incontro in cui Nancy Porsia, giornalista freelance e autrice di «Mal di Libia», ha smontato la narrazione su trafficanti e scafisti: «Non nego che queste figure esistano, ma purtroppo il nostro bisogno di incasellare e interpretare il mondo con categorie occidentali sono ostacoli alla comprensione. Nel mio reportage, faccio un passo indietro, ho voluto raccontare i libici e le libiche, i sogni e le frustrazioni di un popolo che non viene mai raccontato, perché la Libia viene solo descritta come un manipolo di trafficanti di uomini, un corridoio vuoto da cui passano i migranti. Non è così».

Ricordando il decennale del naufragio del 3 ottobre, Porsia ha voluto ricordare anche quello, successivo, dell’11 ottobre 2013: «Mentre le autorità italiane gridavano “mai più” a fianco dei 366 feretri, da Roma arrivava l’ordine, alla nave militare Libra, di tenersi alla larga da un barcone “in distress” che per l’Italia era ancora nelle acque di competenza maltesi ma di cui nemmeno Malta si voleva occupare. Nel giro di poche ore, quel barcone si ribaltava e affondava, con un bilancio di 268 morti, quasi tutti siriani». Da quei fatti, anche il lavoro della giornalista cambia radicalmente: «Io mi trovavo in Libia, dove poi sono rimasta fino alla fine del 2016. Fino ad allora mi ero rifiutata di occuparmi di migrazioni, perché il mio scopo era ridare dignità al popolo libico. Ma i due naufragi, dove hanno perso la vita anche persone che conoscevo bene, tra cui due bimbi mai ritrovati, Ahmad e Mohammed, mi hanno spinta a mettermi sulle orme di un trafficante, per capire e raccontare come si vende morte».


La giornalista scopre, dopo averci passato diversi giorni insieme, che era un uomo di buon senso: «Un mio coetaneo, spigliato, laureato in Sociologia e con un incredibile rispetto anche per la figura della donna. Ho iniziato ad avere i primi dubbi. Tra noi, il patto era che mi avrebbe permesso di filmare la partenza di uno dei suoi barconi, partenza che però continuava a rimandare, all’inizio perché il mare era grosso. Io dovevo comunque inviare il mio reportage e, anche una volta inviato, la partenza del barcone continuava a essere rimandata. Solo dopo la messa in onda capisco che quell’uomo non era un trafficante, termine inculcatoci dalla politica, e che dopo l’idea dell’Europa di bombardare i barchini nei porti libici, lui aveva detto basta, dandosi al traffico di diesel. Chi ha preso il posto di Omar? I trafficanti veri, che però non sono solo libici ma fanno parte di mafie transnazionali con basi in Nigeria, Sudan, Etiopia. Se parliamo di mafie, possiamo considerare i libici i commercianti al dettaglio. I grossisti, invece, non sono i libici». 


E sul tema degli scafisti è intervenuto anche Salvatore Vella, procuratore Aggiunto presso il Tribunale di Agrigento, competente anche per Lampedusa: «Da vent’anni mi occupo di immigrazione e so quanto sia facile dare etichette e quanto, le cose, siano cambiate. Nel 2004 mi sono occupato di un barcone proveniente dalle coste egiziane. Una volta sbarcati, l’organizzazione rifocillava i migranti, consentiva loro di chiamare a casa, riceveva allora dalle famiglie la restante parte del pagamento del ticket e poi accompagnava tutti alla stazione di Palermo. Quelle erano organizzazioni che, in qualche modo, avevano a cuore la vita delle persone. Oggi, un peschereccio di venti metri che parte con 500 persone a bordo è in distress alla partenza. Nel maggio del 2016, non lo dimenticherò mai, mi chiamarono per un’imbarcazione che stava affondando, dalla quale erano stati recuperati cinque corpi. Durante la notte, ricevetti una chiamata dalla squadra mobile: i morti non erano cinque ma 280, perché in stiva erano stati recuperati più ponti per far viaggiare moltissimi migranti. Per ridurre i costi e guadagnare di più, i barconi sono diventati sempre più pericolosi». Tra gommoni cinesi e lamiere saldate in più punti per realizzare barche di fortuna, anche la figura del cosiddetto scafista è cambiata: «Per un periodo, si è trattato di persone addestrate in due giorni. Oggi, si tratta quasi sempre di migranti a cui viene messo in mano un timone».

Ed è ancora Porsia che ha sottolineato come il sistema, oggi, sia criminogeno: «Nessun migrante vorrebbe entrare in Europa irregolarmente, il problema è che non può fare altrimenti. La stessa distinzione tra migranti economici e richiedenti asilo ha stancato: ma davvero fa differenza se una persona scappa dalle bombe, dalla polizia tunisina che la vessa o perché sta morendo di fame? Senza contare che quelli che criminalizzano l’immigrazione sono gli stessi che poi chiedono le sanatorie perché, degli immigranti, abbiamo bisogno per lavorare. Non dimenticate mai che chi si mette in viaggio, nelle mani di criminali, spendendo tutto quello che ha racimolato, è perché un’alternativa non ce l’ha. Se si potesse entrare legalmente, le cose cambierebbero. Il sistema è storto alla radice. Possiamo analizzare quando volete i traffici di esseri umani ma ricordiamoci le responsabilità politiche e morali di questi morti in mare».