Di certi occhi neri a Lampedusa, dove devi impregnarti di questo dolore

«Impregnatevi di questo dolore».

A Lampedusa oggi piove, che fa strano agli stessi isolani, in fondo è inizio giugno e qua dovrebbe sembrare di essere in Africa, come in effetti (quasi) siamo. Francesco Tuccio, a metà pomeriggio, è nella sua bottega di falegname in fondo in fondo a una traversa di una traversa di viale Roma, dove i turisti comprano braccialetti cosparsi di tartarughe. A distanza di molti anni, Tuccio ha nella voce e nelle parole lo stesso identico sentimento che lo ha portato a far parlare di sé per quelle croci colorate costruite con il legno delle barche dei migranti. Croci che oggi, in formato anche minuscolo, quasi da custodire nelle tasche, sua moglie Giovanna vende in un negozio d’arte a poca distanza. 

«La gente parla ma non sa nulla, io invece dico: venite a vedere, sporcatevi le mani. Io ho assistito a cose inimmaginabili, che non dimenticherò mai. Ma è più comodo non guardare, non fare, voltarsi dall’altra parte». Francesco Tuccio volge lo sguardo ai primi sbarchi, quando tutto era così nuovo, così impensabile. Quando a Lampedusa passava la storia del mondo ma il resto d’Italia non se ne accorgeva.

Quest’anno, vicinissimo al Molo Favaloro così tristemente noto alle cronache, ha riaperto Porto M, che ospita anche una piccola mostra con gli oggetti ritrovati sulle barche dei migranti. Ma se l’anno scorso il turismo e la sua facciata mascheravano sbarchi, hotspot e ambulanze, quest’anno no. Quest’anno, che Lampedusa sia davvero quell’isola in cui si approda spesso scappando dalla Libia e dalla Tunisia, è sotto gli occhi di tutti. O meglio, di tutti quelli che scelgono di amare questo luogo in pieno, abbracciandolo per intero.

C’è una nave, la Galaxy, che parte di continuo dal Porto Vecchio per portare i migranti in Sicilia: li vedi in fila per terra, con le mascherine, in attesa di un’altra partenza. C’è la Croce Rossa che passa costante, spesso con le sue ambulanze, e che distribuisce acqua e cibo.

E c’è, se lo si vuole vedere, odore di disperazione ai bordi delle strade, sulle rive delle calette. Assistere a uno sbarco, in solitaria, di quaranta uomini sfiancati, mentre si torna da un aperitivo alla fine di una giornata di mare, è qualcosa che resta negli occhi e nel petto, credo a lungo. L’anno scorso mi raccontavano che il fenomeno migratorio a Lampedusa è ben nascosto, non viene mostrato, che c’è la patina del turismo da preservare, e che non è vero che l’isola sia questo esempio eccelso di accoglienza. Ma questa volta, è tutta un’altra musica. Politiche migratorie a parte, normative cambiate a parte, Governo a parte, Lampedusa oggi è davvero un posto di cui non puoi ignorare il lato per alcuni scomodo, fastidioso. E qualcosa ti stride dentro mentre un gruppo di signore, al ristorante, continua a ribadire che no, davvero non si vede nulla. E qualcosa non ti torna mentre, in spiaggia, qualcuno arriva a dire che sì, un po’ di paura prima di partire l’aveva, ma poi alla fine è tutta narrazione dei telegiornali. Ha davvero ragione Tuccio: se ti volti dall’altra parte non vedi, anche se quello che dovresti vedere (e sentire) ce l’hai sotto il naso.

«La vedete quella barca?», ci chiede il giorno dopo Silvio, al timone per farci fare il giro dell’isola. «È arrivata stanotte». Sirene, elicotteri, volanti che sfrecciano: è un continuo. Allora me ne vado al cimitero vecchio, a pochi passi dal mare dai mille tipi di azzurro di Cala Pisana. Cerco Vincenzo, il custode, che per recuperare i cadaveri dei migranti e portarli alla sepoltura si riempiva la mascherina di foglie di basilico. Non lo trovo, avrei voluto farci due chiacchiere. Però mi pianto qui, tra queste lapidi di lampedusani che stanno accanto a quelle dei migranti. E penso che, dai cimiteri, si possa capire molto dell’anima di un luogo, anche delle sue contraddizioni.