Franck, camerunese, 30 anni. La sua potrebbe essere una storia migratoria come tante. Ma leggere l’ennesima testimonianza di come, da un Paese considerato del Terzo Mondo, si fugga per inseguire un destino migliore, non perde mai d’importanza, anzi. «Quando sono arrivato, nel 2017, non ho cercato subito lavoro, perché all’inizio ho voluto imparare le basi della lingua italiana, andando a scuola. Nelle ore libere, però, lavoravo in campagna per la cooperativa che mi ospitava. Dopo aver preso la terza media fortunatamente ho trovato subito lavoro a tempo pieno in un’altra azienda. Credo di essere stato aiutato parecchio, soprattutto dalla mia fidanzata (che ora è mia moglie) e da tanti altri amici». Molto veloce e scaltro nell’apprendimento dell’italiano, Franck dai primi livelli (A1 e A2) passa in fretta al B1, per poi prendere la licenza media: «Così sono riuscito anche a prendere la patente di guida, il patentino per la conduzione del muletto e a seguire il corso per soccorritori 118. Certo, mi sono impegnato molto, frequentando la scuola assiduamente per potermi preparare ai corsi che avrei dovuto affrontare dopo. Poi ho avuto l’opportunità di incontrare dei ragazzi italiani con cui giocavo a calcio e che mi aiutavano ad imparare le cose più importanti, come i giorni della settimana o a contare. Ovviamente frequentare gli italiani è stato fondamentale».
Per Franck, la difficoltà più grande incontrata appena arrivato in Italia è stata quella di non poter parlare con la sua famiglia rimasta in Camerun, per circa due mesi: «In realtà era da un anno che facevo fatica a contattarli, perché in Libia non era facile avere la connessione internet. In Italia sapevo che, pur avendo la libertà di farlo, non ci riuscivo e volevo dar loro la bella notizia di essere sopravvissuto ed essere riuscito ad arrivare in un Paese libero». La libertà, però, non ha evitato a Franck di subire, una volta, un episodio di razzismo: «Mi è capitato di ricevere insulti razzisti da parte di un uomo anziano che non conoscevo. Stavo andando da solo a prendere l’auto di mia moglie per andare a fare la spesa, quando sono stato aggredito verbalmente da quest’uomo che era indispettito dal fatto che avessi un’auto. Diceva di essere stanco di mantenere i neri e che saremmo dovuti tornare tutti nel nostro Paese». A proposito di soldi, Franck durante il viaggio dal Camerun ha utilizzato tutti i suoi risparmi, messi da parte dopo anni di lavoro come camionista. Si trattava di circa 2mila euro. «Arrivato in Libia – racconta – ho anche lavorato duramente per poter sopravvivere. In Camerun lavoravo come camionista, viaggiavo in tutta l’Africa centrale principalmente per consegnare riso. Una sera del 2016 caricai 700 sacchi di riso da 50 chili che avrei poi dovuto portare nella Repubblica Centrafricana. Prima di uscire dal porto di Douala il camion ha avuto un guasto, così, sapendo che era rischioso proseguire con il mezzo in quelle condizioni, decisi di lasciarlo lì dopo aver tentato senza successo di chiamare il mio capo ed aver avvisato anche un mio collega. Sapendo che il camion sarebbe stato in sicurezza dentro quell’area portuale, me ne tornai a casa tranquillo. Il giorno seguente mi chiamò il mio capo, il proprietario del camion, dicendomi di aver appena visto la mia chiamata persa e, dopo avergli spiegato la situazione, mi disse che sarebbe andato sul posto a vedere il problema con un meccanico. Dopo circa due ore mi richiamò dicendomi di non aver trovato il camion nel posto che gli avevo indicato. Lo raggiunsi al porto ed in effetti il camion non c’era più. Andammo insieme all’uscita del porto per chiedere alla portineria se avessero visto il camion uscire; dissero di sì, il mio collega l’aveva portato fuori e da quel momento si era reso irreperibile: l’aveva rubato». Il capo disse allora a Franck che, essendo la bolla a nome suo, la responsabilità dell’accaduto era sua e che dunque avrebbe dovuto rimborsargli sia la merce che il camion: «Io non disponevo di quella somma quindi, al mio rifiuto, mi trascinò alla centrale di Polizia dove fui discolpato praticamente subito perché c’erano testimoni che avevano visto il mio collega compiere il fatto. Dopo due settimane dall’accaduto, una sera sentii bussare alla porta di casa. Aprii e mi trovai davanti tre militari con la divisa dell’esercito e il proprietario del camion. Mi disse che se non l’avessi pagato mi avrebbe fatto ammazzare. Iniziarono a picchiarmi, ma mi difesi. Scappando dalla finestra sentii uno sparo e un dolore fortissimo al piede destro. Riuscii comunque a fuggire e mi nascosi da un vicino, poi venne mio fratello maggiore che mi portò in ospedale, dove rimasi circa due mesi. Quando uscii dall’ospedale andai direttamente dalla Polizia dove lavora un mio cugino a denunciare il mio ex capo e quindi lo convocarono. Il giorno della convocazione lui si presentò alla polizia accompagnato da suo fratello, che non sapevo essere il procuratore generale, perciò non mi permisero nemmeno di partecipare all’interrogazione (di solito in Camerun si fanno incontrare davanti alla Polizia i due litiganti, per avere il punto di vista di entrambi prima di procedere con la denuncia, ndr)».
Fuori dall’ufficio del comandante l’ex capo minaccia Franck di ammazzarlo, in caso di mancato rimborso: «Mio cugino parlò con il comandante che gli disse chiaramente che si trattava di una famiglia molto ricca ed intoccabile, mi consigliava di scappare e andare a vivere altrove. Seguii il consiglio e andai a vivere da mia sorella a Buea, città nella parte anglofona del Camerun, dove è nata mia madre. Dopo alcuni giorni dal mio arrivo, la rivolta degli anglofoni nei confronti del governo a maggioranza francofona si fece più aspra e a mia sorella giunsero delle voci da un suo amico che faceva parte del movimento che avrebbero fatto dei rastrellamenti per uccidere i francofoni che abitavano in quella città. Mia sorella viveva lì ormai da tanti anni e non doveva preoccuparsi, ma io ero a rischio, soprattutto per il mio accento. Così fuggii di fretta e furia senza nemmeno prendere altri vestiti, telefono o soldi e con l’aiuto del collega del marito di mia sorella, raggiunsi il confine con la Nigeria. Espatriai e trovai subito lavoro come facchino in un’agenzia di viaggi, ma dormivo dentro una macchina abbandonata, perché non avevo nulla con me. Una sera venni affiancato da un uomo che mi disse che era una settimana che mi notava uscire da quella macchina e che mi voleva aiutare. Dopo avergli raccontato la mia storia, mi proponeva di mandarmi a lavorare in Libia da un suo fratello e che in breve tempo avrei guadagnato tutti i soldi necessari per ripagare il proprietario del camion; non solo, lui mi avrebbe anticipato anche i soldi del viaggio. Non conoscendo la reale situazione socio-politica in cui versa la Libia, fui subito attratto dalla proposta e accettai».
La permanenza in Libia è stata sicuramente la parte più difficile e dolorosa del viaggio di Franck: «Dopo essere partito dalla Nigeria con altri ragazzi, abbiamo intrapreso la strada nel deserto. Eravamo 31 persone su un pick-up. Al terzo giorno ci trovammo a corto di acqua, così gli autisti ci portarono in un punto dove solitamente si abbeverano i cammelli. Bevemmo quell’acqua sporca e salatissima, che ci mise ancora più sete. Al quarto giorno di viaggio, all’entrata della Libia, in una città che si chiama Sabha, di notte dei ribelli libici ci spararono contro. La gente si alzava per scappare ma cadevano come birilli. Io urlavo di rimanere giù e mi salvai. Arrivarono altri libici che mandarono in fuga i ribelli, erano trafficanti che ci avevano comprato. Ci portarono in una delle loro prigioni, dove venimmo divisi tra uomini e donne e bambini. Chi voleva uscire avrebbe dovuto pagare 200mila franchi cfa (300 euro circa) e avremmo dovuto pagare anche per chi era morto. Chi non aveva i soldi doveva contattare la propria famiglia e far inviare i soldi a quell’uomo che mi aveva reclutato in Nigeria. Se i soldi non arrivano subito ti picchiano mentre sei al telefono in modo da spaventare la tua famiglia e far sì che si sbrighino a pagare. Le donne invece finiscono per prostituirsi, o con i trafficanti, o con clienti esterni. Ho visto morire davanti a me un ragazzino a causa delle botte, esperienza che mi ha davvero destabilizzato e fatto capire la gravità della situazione. Quando vidi arrivare un altro ragazzino minorenne francofono, mi feci subito avanti per poter comunicare io con la sua famiglia e convincerli a pagare il più velocemente possibile, perché probabilmente anche lui non sarebbe sopravvissuto molto. Adesso so che è tranquillo qui in Italia, in affido ad una famiglia».
Dopo un mese passato in quelle condizioni, Franck riesce a pagare la sua quota e va in un’altra città, dove scopre la realtà politica e della vita in Libia: «Incontrai un gruppo di ragazzi neri e chiesi loro come potevo fare per tornare indietro, ma mi dissero che era impossibile, l’unica cosa da fare era andare avanti. Mentre cercavo di raggiungere Tripoli fui rapito da un gruppo di libici che avevano bisogno di uno forte per farlo lavorare. Feci un mese di lavoro forzato in campagna e nell’allevamento, di sera mi chiudevano in una stanza con pane e pasta scotta come cibo. Dopo un po’ di tempo durante uno spostamento in città sono riuscito a scappare anche grazie all’aiuto di altri ragazzi neri che mi avevano visto. Proseguii la strada con loro, sotto la guida di un altro trafficante, fino a Zabrata dove ci dividemmo perché loro avevano altri soldi per poter continuare il viaggio, mentre io no. Qui mi guadagnavo da mangiare con piccoli lavoretti, ma venni nuovamente rapito e portato in un centro dove gli uomini vengono costretti a prostituirsi con donne per lo più straniere. Convinsi una di queste ad aiutarmi a scappare e ad andare a vivere da lei, ma in realtà non rimasi con lei nemmeno un giorno, scappai ancora e tornai a Zabrata da alcuni di quei ragazzi africani che avevo conosciuto. Con alcuni soldi inviatomi dalla mia famiglia finalmente potevo pagarmi la traversata del Mediterraneo. Quello ormai era il mio obbiettivo. Non riflettevo nemmeno su cosa comportava, volevo solo lasciare la Libia, dove è chiaro ormai che un nero non può vivere nella legalità, perché si è perseguitati da tutti. Il giorno dell’attraversamento avevamo fatto pochi metri nell’acqua quando la guardia costiera libica ci arrestò e ci portò in una prigione governativa, dove rimasi circa tre mesi. Anche in questo caso, se paghi puoi uscire, ma almeno non ti picchiano dal mattino alla sera. Se non puoi pagare, rimani lì. Un giorno arrivarono anche dei rappresentanti dell’UNHCR dicendo che chi voleva poteva avere l’opportunità di tornare nel proprio paese. Io mi feci subito avanti, ma non si fecero mai più vedere. Un giorno come tanti le guardie ci prelevarono per farci lavorare all’esterno della prigione ed io approfittai della loro distrazione per scappare nuovamente. Corsi a gambe levate con le guardie che mi sparavano dietro. Non ricordo di aver mai corso così veloce. Chiesi aiuto ad un uomo libico molto anziano, un cheban, un tipo di uomo che avevo imparato essere affidabile per noi migranti. Quest’uomo mi portò da alcuni ragazzi ghanesi che facevano i muratori. Lavorai con loro tre mesi senza ricevere un soldo. Quando li chiesi, mi vendettero a due libici che mi portarono dentro un container e che capii volevano violentarmi. Con tutta la forza che avevo li colpii ed essendo più forte di loro, anche se erano armati, li stesi, riuscendo a mettermi in salvo. Chiesi aiuto ad un altro anziano, che spiegò la situazione in cui mi trovavo ad un suo amico scafista. Con lui andammo dai ghanesi a recuperare i soldi che mi dovevano e con i quali mi pagai la traversata del Mediterraneo su un gommone con altre 130 persone».
Franck ricorda vividamente la sera della partenza: «Mi avanzava qualche soldo e lo diedi ad una mamma con un bambino. Non so nuotare, avevo una paura fortissima. Ma le cose erano due: morire in Libia o provare ad arrivare in Italia. Dopo sei ore in mezzo al mare e di notte riuscimmo ad avvistare una grande nave che grazie a Dio ci ha soccorso».
Oggi, a distanza di quattro anni dal suo arrivo, Franck crede di vivere bene in Italia: «Mi sono sposato, ho un lavoro in un’associazione che fa accoglienza e che perciò mi ha permesso di capire a mia volta cosa significa accogliere chi ha bisogno. Sono stato in grado, quindi, di cogliere le mie occasioni e mi sono impegnato tanto per farlo. Ho avuto la fortuna di aver conosciuto tante persone e grazie al mio carattere di non aver fatto fatica ad approcciarle e a farmi voler bene. Le persone che conosco, di tutte le età, mi fanno sentire a mio agio e al pari di un nativo italiano. Una signora in particolare mi ha accolto e mi ha fatto sentire come un figlio. Mi sono sposato con una ragazza italiana e ogni tanto mi fermo a pensare che non mi sarei mai immaginato di fare un viaggio così lungo per trovare la mia dolce metà. Grazie, Italia, per l’opportunità che mi hai dato».