Chi lavora con i migranti (o comunque li ha a cuore) non arriva a Shëngjin e Gjadër con lo sguardo neutrale e la testa vuota. Chi arriva qui, davanti alle cancellate dei Cpr aperti in Albania, si avvicina con gli occhi e il petto stracolmi di nomi ben precisi: Ahmed, Yaya, Sidikiba, Mustapha, Famara…. Anzi, a dire il vero si appropinqua a quei muri di ferro avendo addosso tutto, ma proprio tutto, di loro: le storie che hanno raccontato, le loro famiglie (sempre che ci siano), i loro sorrisi, le loro giornate no, i loro occhi a volte persi e a volte speranzosi, la loro tristezza e la loro voglia di emancipazione.
Sì, tutti noi ce li siamo immaginati dentro quelle carceri (e come altro dovremmo chiamarli, i Cpr?), caso mai non ne avessero incontrate altre, di carceri, lungo i loro viaggi verso l’Italia. Ce li siamo immaginati rinchiusi senza un perché, deportati, impotenti, senza più una speranza che fosse una, proprio ora che erano arrivati a Lampedusa, a Pozzallo, a Mazzara del Vallo. Abbiamo fatto un gioco strano con la mente (la parola “gioco” può essere tragica, se si pensa che la rotta balcanica, a causa dei respingimenti alle frontiere, viene spesso definita “the game”), proiettando i ragazzi e le ragazze con cui lavoriamo indietro nel tempo, magari in corrispondenza con l’apertura di questi luoghi di detenzione in mezzo al nulla, tra l’altro in un Paese in cui non hanno chiesto di andare.
Quell’operazione dell’immaginazione ci è parsa insopportabile, insostenibile, disumana. E ora che non sappiamo che cosa ne sarà, dei Cpr davanti ai quali abbiamo protestato (marrëveshje ilegale, rezistenca globale! L’accordo è illegale, la resistenza è globale!), possiamo solo sospendere le parole, maledetti noi che non possiamo mai dare una risposta precisa, ai ragazzi che ci chiedono dei loro amici in Libia, pronti a salpare sull’ennesimo barchino che, in mezzo al mare, rischia tutto ciò che si può rischiare.