Chi ha paura della protezione speciale?

Non sarà sfuggito a molti che una delle due tipologie di protezione speciale sia stata già abolita dal decreto Cutro. Di cosa si tratta? Nel 2002 la Corte di giustizia dell’Unione europea chiarì che automatismi nell’applicazione delle procedure di ammissione nello spazio Schengen erano in contrasto con il principio di proporzionalità e potevano produrre effetti sproporzionati nelle materie che toccavano importanti diritti delle persone come ad esempio il diritto all’unità familiare. Si rendeva pertanto necessaria una valutazione caso per caso che tenesse conto dei vincoli familiari della persona interessata, del suo effettivo inserimento nello Stato membro, della durata del soggiorno in quel paese, nonché della sussistenza di reti parentali, culturali o sociali nel proprio Paese d’origine. Il respingimento di una persona senza tale valutazione avrebbe infatti comportato la violazione del diritto fondamentale al rispetto della vita privata e familiare di ogni individuo. Questo principio fino al 2020 ha trovato applicazione in Italia a livello giurisprudenziale, senza una esplicita previsione normativa. Ha prodotto una modifica della norma che disciplina l’accordo di integrazione il cui automatismo diventa non applicabile per tutte le categorie di cittadini stranieri in qualche modo regolamentate dal diritto dell’Unione. 

Con il decreto legge n. 130/2020 convertito con la legge n. 173/2020 tale principio diventa legge. Prima di revocare un permesso di soggiorno, bisogna valutare da quanto tempo la persona è regolarmente soggiornante in Italia, se ha famiglia, se è inserita sul territorio nazionale e se dispone ancora di relazioni familiari, di reti sociali o culturali nel Paese di origine. Al netto chiaramente delle ragioni di sicurezza nazionale, di ordine pubblico nonché di protezione della salute. Questa norma interviene sulle situazioni di potenziale caduta nell’irregolarità amministrativa di persone che al momento del rinnovo del permesso di soggiorno non sono più in grado di documentare il possesso dei requisiti che ne hanno determinato il rilascio. Ed i motivi possono essere i più svariati: la perdita del lavoro, della disponibilità di un alloggio per l’impossibilità sopravvenuta di pagare un mutuo o un affitto, motivi burocratici o economici, difficoltà personali, familiari o sociali, che tutti incontrano nel proprio percorso di vita, con l’aggravante di reti parentali e amicali di supporto meno strutturate rispetto agli autoctoni. 

Documentare i rovesci del proprio percorso migratorio, la chiusura dell’azienda per la quale si è lavorato per anni, lo sfratto ricevuto per ragioni economiche, ma anche di essere in Italia da tanti anni, di essersi sempre comportato bene, della frequenza scolastica dei propri figli o del non avere più rapporti con parenti nel Paese di origine, non significa solo raccontare la propria storia, ma anche che si è partecipe di quella italiana, di viverne le vicissitudini economiche, sociali, individuali come tutti. È una norma di civiltà o tradisce i principi del nostro ordinamento giuridico e della Carta Costituzionale? 

Eppure l’applicazione viene osteggiata sin da principio. In particolare: 
– Viene introdotto un costo elevato rispetto alle altre protezioni, nonostante si rivolga a persone che possono trovarsi in situazioni di fragilità economica; 
– La piattaforma informatica per gli appuntamenti per richiedere la protezione viene modulata su una tempistica eccessivamente dilatata, con prenotazioni a 1, 2 anni di distanza, lasciando il cittadino in un limbo di sospensione amministrativa che non consente in alcun modo il recupero dell’autonomia; 
– Si dispone l’impossibilità di conversione in permesso per lavoro, che rappresenta la condizione “normale” del cittadino migrante. 
L’implementazione della norma risulta così dissuasiva per la stragrande maggioranza dei cittadini che potrebbe avvalersene, mentre alimenta un utilizzo distorto da parte di quelle persone che hanno interesse solo ad acquisire una ricevuta di prenotazione dell’appuntamento per continuare a circolare indisturbate per altri anni. Sarebbe stato opportuno prevedere invece tempistiche brevi nella definizione delle domande sia per supportare i percorsi di re-integrazione dei cittadini sia per verificare i motivi di ordine pubblico nei casi in cui sussistano. Ed arriviamo così a marzo quando il decreto legge n. 20/2023 ne cancella il testo e riaffida di nuovo la questione ad un contezioso tra Stato e cittadino. 


Alcuni commentatori sottolineano che una norma che tutela alcune migliaia di cittadini stranieri, seppure in condizioni di fragilità, ben si presta ad operazioni simboliche di propaganda che possano parlare a determinati elettorati. Peccato che sotto ci finiscano le vite di uomini, donne e bambini, cui spesso non è possibile imputare nulla, se non vicende umane come capitano a tutti. Ci troviamo quasi sempre impreparati davanti agli imprevisti che il destino ci riserva, un trauma, una depressione, un incidente, una separazione familiare, un lutto, una crisi economica e si può precipitare. Mantenere uno straccio di permesso può consentirti di rialzarti, senza è impossibile

Ma l’ostilità che ha incontrato questa disposizione ha un’origine più profonda, culturale, perché rompe uno schema che viene somministrato all’opinione pubblica da tempo e che prevede che da una parte ci siano i cittadini regolarmente soggiornanti e dall’altra i “clandestini”. Il retro pensiero è che il cittadino irregolare sia un malfattore. Ed invece la norma ci dimostra che non esiste questa equazione. La stragrande maggioranza dei cittadini perde il permesso di soggiorno perché non è più in grado di dimostrare la disponibilità dei requisiti che ne hanno determinato il rilascio, non perché compie reati. Non esiste una separazione netta tra le due categorie, si può essere regolarmente soggiornanti in un periodo della vita e diventare irregolari in un altro, come si può essere occupati e disoccupati in momenti diversi della propria esistenza. Restando persone per bene, semmai colpite dalla sorte. Il governo ha riattivato le procedure di ingresso per motivi di lavoro: 80.000 ingressi, altri 100.000 previsti entro la fine dell’anno, 400.000 nei prossimi 2 anni, per rispondere ad esigenze economiche, ad una gravissima crisi demografica ed al fabbisogno di manodopera in molti settori del mercato del lavoro. 

Tali lavoratori potrebbero ritrovarsi tra alcuni anni nelle condizioni che ho provato a descrivere: li tratteremo come pacchi postali o come persone?