Binario 95, la casa degli «scartati». Dove si rinasce

Uno sportello di ascolto. Un centro per cucinare, cucire, creare, condivide saperi. Un rifugio per donne e transgender. Uno lembo di terra da coltivare. Una rivista autogestita. Binario 95, associazione a sostegno degli ultimi e degli «scartati», è un’enclave polimorfa di solidarietà e affratellamento nata vent’anni fa nell’ombelico di Roma. Tanta acqua sotto i ponti è passata da quella piccola capanna di accoglienza spuntata nel 2001 nel cuore della stazione Termini: «Siamo come una foresta, anno dopo anno ci espandiamo. Centro dopo centro, stiamo mettendo radici in tutta la città», racconta il presidente Alessandro Radicchi, mentre mi invita a visitare tutti gli altri centri.

Nel frattempo non è ancora sorta una foresta, ma un meraviglioso giardino sì: è il Villaggio 95, a Casalbertone, a un passo dal raccordo anulare che sbraita in lontananza i soliti rumoreggi di macchine e clacson. Ma qui nel silenzio gentile di un ettaro di verde, sono spuntati una ciclofficina, uno spazio ricreativo, un’area barbecue, un tendone per eventi, cineforum, assemblee. Un fazzoletto verde di solidarietà che resiste imperterrito all’invasione spersonalizzante del catrame e del cemento, dove vite al margine rifioriscono, si reinventano, trovano una dignità perduta. Tra vasche che diventano sofà, materassi altalene, lavabi compostiere, jeans zaini e borse, sboccia un senso operoso di comunità che recupera e si reinventa, di consociativismo senza barriere, di assembramento emotivo dove ognuno semina i suoi talenti in un unico grande terreno. Così è sorto, ad esempio, l’orto sociale. Qui ogni giorno ottanta «ortari» di ogni etnia accarezzano, ascoltano, fecondano la terra. Che apre le braccia e restituisce frutti per tutti con la certezza di una vita mai più infreddolita e accartocciata tra binari della stazione a elemosinare il pane. Perché il pane ora si può impastare e mangiare, insieme.

Tra i filari di verdure che crescono e pomodori che cominciano timidamente a spuntare dalla terra, una volontaria, intanto, mi racconta come si fa comunità dentro una pandemia: «Rispetto al solo anno precedente, le richieste nell’ultimo anno al centro di aiuto sono raddoppiate. E non c’è più grossa differenza tra migranti (che prima erano in maggioranza) e italiani. Cerchiamo di stare a galla, ma facciamo fatica a dare risposte a tutti come prima. Per di più abbiamo dovuto congelare o continuare a distanza le attività del nostro laboratorio, anche se da poco sono riprese. E presto si allargheranno ancora».

Tra l’humus della carta (riciclata), intanto, fioriscono altre storie di redenzione come quella di Natalie, una vita a lottare con le montagne russe della mente, tra epilessia, abbandoni emotivi e figli perduti. Poi il viaggio dall’Ucraina a Roma. E l’incontro con Binario 95. Ora con mani sapienti intreccia fogli di giornale: sbocciano vasi di ogni tipo, multicolori e sgargianti. Come i fiori che disegna per seppellire i fantasmi della testa. Me li mostra orgogliosa, li accarezza, le dita viaggiano sicure, indovinano traiettorie, riconoscono i sentieri della rinascita. Si avvicina, spalanca gli occhi traditi da una nube di commozione: «Il Binario è casa mia. Qui sono rinata». Il concerto di fiori tutt’intorno a lei lo conforma. Binario 95: la casa di chi non ha casa.