Asmae Dachan stasera al Festival: «Una guerra finisce quando si ottiene giustizia»

Le guerre dimenticate: sarà questo il tema dell’incontro che si terrà questa sera, sabato 4 giugno alle 21, alle Artificerie Almagià, nell’ambito del Festival delle Culture di Ravenna. Tra i vari ospiti anche la scrittrice e giornalista italo-siriana Asmae Dachan, autrice di reportage, romanzi e raccolte di poesie, nonché creatrice del podcast «Siria, Guerra e Gelsomini». In uscita col suo ultimo romanzo «Cicatrice su tela», la scrittrice ha affrontato nei suoi libri la difficile e sofferente questione del conflitto in Siria, sua terra d’origine. Una terra che non ha mai vissuto in prima persona, essendo nata in Italia, ma che sente in maniera viscerale e profonda, le cui origini non può e non vuole rinnegare e che l’hanno spinta a fare del suo lavoro di giornalista e scrittrice un mezzo per denunciare ciò che è accaduto e che tuttora accade in Siria provocando ferite inimmaginabili ai suoi abitanti. Asmae, raggiunta al telefono, ci racconta della sua passione per la scrittura nata da piccolina e sostenuta dalla famiglia, dello studio per diventare giornalista prima e scrittrice poi e dei suoi primi articoli pubblicati su un giornale diocesano e riguardanti il dialogo interreligioso, tema a lei molto caro. Poi eccoci nel 2011, la guerra civile imperversa in Siria e nel 2014 l’incubo dal nome Isis emerge da un contesto già difficile e segnato portando ancora terrore e ingiustizie quotidiane.

Da questo momento in poi la scrittrice inizia a fare reportage e a scrivere di Siria e di quanto stava accadendo, perché lei ha avuto la fortuna di nascere in uno stato di diritto, dove italiani prima di lei hanno lottato per garantirle i diritti umani che ha oggi e che non sono affatto scontati, mentre i suoi compagni in Siria soffrono per vedere riconosciuti i diritti più essenziali e una pace che sembra persa tra la violenza. Sente che quel dramma è anche il suo, si definisce una giornalista italo-siriana proprio perché il pubblico che la legge sappia che i fatti vengono si raccontati, ma il coinvolgimento che lei stessa sente per la sua terra non può che trapelare da ogni sua parola. Impossibile rimanere distaccati quando si ha un legame di sangue con il proprio popolo: «Io ho sempre pensato di avere due mamme, una adottiva che è l’Italia, che mi ha cresciuta e che sono disposta a difendere con la vita e i cui diritti onoro ogni giorno rendendo la bellissima Costituzione che abbiamo parola piena di sostanza e non carta vuota, e una mamma biologica che mi ha dato il sangue e alla quale non posso voltare le spalle». Queste le sue parole quando le chiedo di raccontarci della sua identità in quanto giornalista e del suo rapporto con la Siria. Asmae è l’esempio di come una giornalista italiana e non basata in Siria possa anche da lontano continuare a mantenere viva la questione e i diritti dimenticati di un popolo che sta ancora soffrendo. Le chiedo come fare per non dimenticarsi della sua terra, per non cadere nella retorica di una pura guerra mediatica che, raggiunto l’apice del conflitto, cada poi nell’oblio, come è successo anche con l’Afghanistan sotto i Talebani?. Mi dice che mentre prima del 2014 molti corrispondenti internazionali potevano entrare nel paese e fare il loro lavoro di testimonianza, dal 2014 non è più così semplice. Gli ingressi non vengono concessi, soprattutto nel Nord-Ovest, e ai professionisti che intendono denunciare non solo Daesh ma anche il regime e i suoi atti criminali, è diventato impossibile entrare se non dalla zona curda nel nord. Per fortuna i giornalisti locali si sono evoluti nel corso degli anni, lavorando anche per emittenti estere e dando un quadro spesso preciso di quanto accade all’interno cercando di non tagliare la connessione con l’opinione pubblica internazionale.

Importante, secondo Asmae, non solo valorizzare i suoi colleghi siriani ma anche le tante Ong locali e internazionali che cercano di denunciare il dramma che ha subito la Siria in questi anni e le numerose violazioni dei diritti umani che hanno colpito i civili. Occorre inoltre, cambiare le regole tradizionali del giornalismo per tessere ponti di contatto tra queste associazioni che continuano a raccontare e il mondo occidentale e soprattutto fidarsi di una nuova e importante fonte costituita dalla diaspora siriana presente non solo in Europa ma principalmente nei paesi vicini alla Siria. Primo fra tutti La Turchia, «la Siria fuori dalla Siria», come la definisce Asmae, con i suoi 4 milioni di rifugiati siriani presenti soprattutto al confine diventato ormai tappa fondamentale per chi, come lei, vuole raccontare di Siria. Ma anche paesi come il Libano, la Giordania, il Kurdistan iracheno ospitano importanti numeri di profughi siriani che qui sentono il peso non solo della lontananza dalla loro terra ma di una crisi economica che se appesantisce i locali, rende ancora più drammatica la loro vita e l’integrazione nella comunità di accoglienza.

Asmae invita a riflettere sul fatto che in Siria, anche se tuttora se ne parla poco, le tensioni sono tutt’altro che cessate, continuano bombardamenti su piccola scala, le ingiustizie rimangono impunite e le cellule terroristiche, seppure temporaneamente sconfitte, rappresentano una guerra sotterranea capace di riorganizzarsi come è successo in passato con Al Qaeda. Una guerra, mi dice, può definirsi conclusa solo quando i crimini contro l’umanità commessi al suo interno sono stati portati davanti ad un tribunale internazionale e giustizia viene fatta. Non vi può essere pace in altro modo come non bisogna sottovalutare le numerose guerre oltre al conflitto armato che la Siria sta ancora subendo: quella di povertà con un 90% della popolazione sotto la soglia secondo le stime dell’Onu, una guerra di analfabetismo tra i bambini, con 3 milioni di giovani non scolarizzati stimati dall’Unicef, una guerra delle donne e dei diritti violati delle bambine costrette a matrimoni precoci e bambini educati a combattere. Tante sono le ferite e i traumi che la popolazione siriana si porta dentro tutt’oggi ma la speranza di una ricostruzione risiede principalmente nella dignità composta e coraggiosa delle donne della diaspora intervistate, dei bambini e delle numerose associazioni della società civile internazionali che possono fare la differenza. Esempi positivi provengono dai numerosi reportage della giornalista che ha incontrato donne disposte a denunciare le violenze subite, a chiedere giustizia internazionale quando i contesti favorevoli lo consentivano – come in Germania dove torture e sparizioni sono state riportate ai tribunali internazionali. E ancora donne, madri e mogli che dopo aver perso la vita dei loro cari si sono rimesse in discussione nella Turchia Sud-Orientale – Gaziantep e non solo – per imparare la lingua turca e iscriversi all’università e che vedono nei racconti della Dachan un riscatto per i loro sforzi di mettersi a nudo e ricordare le atrocità e le violenze subite.

Raccontare di loro, di chi sono state durante la guerra e di chi sono diventate ora è importante per riconoscere l’umanità e la forza che le caratterizza. Nella guerra si parla spesso di numeri, si fanno i bilanci delle vittime ma è essenziale descrivere le vite umane che l’hanno subita e che con determinazione si stanno rialzando. Anche i bambini sono fonte di speranza per la scrittrice: i traumi più gravi ricadono sulle loro piccole spalle. Emblematico l’episodio di una bimba figlia della guerra che traumatizzata dagli aerei militari non riesce a salire sull’aereo che avrebbe dovuto invece portarla in salvo in terre di pace. “Io non voglio salire in cielo con le bombe” dice la piccola.  Sono quindi necessari, secondo Asmae, percorsi terapeutici soprattutto per i più grandi che ricordano meglio quanto successo ma è possibile lavorare per e con loro per farli ritornare a una vita normale. Ma cosa accade invece a quanti sono figli di una violenza sistematica, alle generazioni nate col conflitto e che non hanno conosciuto altro che terrore e armi? La normalizzazione della violenza è un pericolo reale come anche la possibile conseguenza di avere adulti instabili di domani; ecco che le associazioni locali e internazionali possono impegnarsi nei territori vicini per dare una prospettiva e delle alternative a questi ragazzi, un futuro diverso e una speranza, cosa difficile da fare dove i conflitti sono tutt’ora in corso. L’associazionismo è fondamentale anche per le donne che hanno subito violenza, esistono i miracoli, a detta della scrittrice, si, ma senza un supporto esterno, sono destinati a morire rapidamente; le donne vanno accompagnate in un percorso che da sole non possono fare. C’è una resistenza forte in Siria e la società civile, composta anche da donne, si sta impegnando per rinascere dalle sue ceneri, per combattere la piaga del terrorismo e di un governo che ha usato violenza contro i suoi stessi cittadini. Ma molti sono stati quelli che hanno deciso di costruire altrove la loro vita, come i due fratelli di uno dei libri della scrittrice, «Il silenzio del mare», che volendo ricominciare da capo in Europa, fuggono la loro patria. Abbiamo già parlato di diaspora e di quanto sia fondamentale creare un nesso forte con essa per non dimenticare la Siria e il suo conflitto ma cosa accade nella parte fortunata di mondo? Come hanno agito l’Europa e l’Italia per accogliere i tanti sfollati in fuga dalla guerra? Asmae sa che ci sono tante lacune e diverse cose da migliorare nell’accoglienza europea e italiana, tanti sforzi per rendere il sistema più funzionante ed evitare un completo abbandono delle famiglie e dei nuovi arrivati. Ma non si sente di condannarlo, elogiando anzi le numerose esperienze positive che hanno visto l’Italia e L’Europa protagoniste nel supporto ai Siriani rispetto invece ai paesi limitrofi alla Siria, basti pensare alla Turchia con i suoi mille problemi legati all’accoglienza, alla libertà di espressione e alla violenza di genere. In Italia la Chiesa Valdese e la Comunità di Sant’Egidio hanno aperto corridoio umanitari facendo arrivare diverse migliaia di Siriani mentre la Svezia e la Germania hanno accolto nel complesso circa un milione di rifugiati. Molte famiglie sono state inserite in un vero e proprio percorso di accoglienza con supporto linguistico, lavorativo per i genitori e scolastico per i figli. Ma occorre, a suo avviso, migliorare le procedure, evitare che i Siriani in arrivo, possano diventare vittime potenziali delle organizzazioni criminali come lo sono purtroppo molti immigrati di altra origine. E soprattutto bisogna evitare discriminazioni basate sull’etnia come la recente guerra in Ucraina ha portato a galla: è fondamentale accogliere sulla base della necessità e della protezione dei diritti umani considerando la persona, l’essere umano e non il colore della sua pelle.

Asmae Dachan ricorda i 6,5 milioni di profughi e 6,5 milioni di sfollati interni, i cosiddetti Internally Displaced People, che non hanno più una casa, vorrebbero tornare ma non possono farlo, per ricordarci che una guerra non è finita se il dramma e l’orrore di chi l’ha vissuta è ancora vivo nei ricordi dei rifugiati siriani. Lei in quanto giornalista ma prima di tutto sorella del popolo siriano ha deciso di usare l’empatia per connettersi con le storie di dolore e rinascita e sfruttare la libertà di stampa che una società democratica come quella italiana le ha concesso per non dimenticare e per dare voce ai giornalisti che non hanno la sua opportunità e ai civili che non hanno voce. Una voce che grazie ai suoi racconti, che presto saranno tradotti in arabo, e i suoi reportage e denunce, i civili stanno finalmente ritrovando proponendosi soggetti attivi del loro riscatto. Per ora vi sono solo delle traduzioni, fatte anche dai locali, dei suoi articoli giornalistici e delle interviste ma la scrittrice intende ampliare la risonanza dei suoi romanzi e della raccolta di poesie «Non c’è il mare ad Aleppo», anche ad un pubblico arabo. La responsabilità che Asmae sente nel raccontare la Siria, unita alla riconoscenza di abitare un paese stabile e democratico fa ben sperare che tanti altri giornalisti e scrittori come lei, pur non condividendo le sue origini, possano interessarsi ai conflitti che lacerano diverse parti del mondo. Questo, per far sì che non si trasformino in conflitti dimenticati, in battaglie che hanno ragione di essere raccontate solo quando ci sono morti da contare mentre scompaiono dalle cartine geografiche del cuore e dalle tv nazionali quando non fanno più notizia. Asmae Dachan ci insegna ad essere grati per ciò che abbiamo e a combattere con la penna o l’attivismo per ottenere pace e diritti uguali per tutti a prescindere dal luogo in cui si viene al mondo. La memoria, a mio avviso, è l’unica “arma” che può essere usata perché certe guerre e le persone coinvolte non cadano nell’oblio.