Il mare che offre la speranza di una terra ospitale e il mare che si rivolta contro e toglie la vita. Nel libro «La legge del mare. Cronache dei soccorsi nel Mediterraneo» (Rizzoli), la giornalista di Internazionale Annalisa Camilli racconta come dal 2017 le Ong che prestano soccorso ai migranti abbiano subito un processo di criminalizzazione verso il loro operato. Il libro è un viaggio tra la strumentalizzazione di certe informazioni che alcuni politici hanno utilizzato per accaparrarsi il consenso delle masse e un’opinione pubblica che si lascia contaminare dalle fake news. L’autrice fa salire il lettore sulle navi da salvataggio per spiegare come stanno veramente le cose e affermare che esiste una legge sempre valida per tutti: prestare soccorso a chi sta affogando è un dovere per ogni marinaio. Camilli sarà a Ravenna (Biblioteca Classense) il 29 marzo alle 17,30, nell’ambito di «Scritture di frontiera», per presentare un altro libro «Un giorno senza fine. Storie dall’Ucraina in guerra» (Ponte alle Grazie).
«I migranti non partono perché ci sono le navi in mare, ma partono perché ci sono i push factor, i fattori che spingono a partire. Nel suo libro lei scrive che queste parole, pronunciate da Enrico Credendino, comandante della missione Eunavfor Med – Operazione Sophia, sono la migliore risposta a chi, per molto tempo ha accusato le navi umanitarie di agire da “effetto chiamata” rispetto alle partenze dei migranti dalla Libia. Quanto è attuale, ancora oggi, quell’accusa?»
«L’accusa di push factor verso le navi umanitarie è la madre di tutte le accuse e ancora oggi si ripropone in maniera massiccia e persistente. Ha contaminato anche documenti ufficiali, come l’Accordo di Malta del 2019. In realtà, negli ultimi anni diverse pubblicazioni hanno smentito quest’accusa. Il ricercatore Matteo Villa nei suoi studi ha dimostrato che le partenze giornaliere sono strettamente correlate alle condizioni del mare. L’ultima tragedia di Cutro, dove hanno perso la vita anche diversi bambini, ha evidenziato che la gente parte comunque, senza sapere se ci sia qualcuno a prestare soccorso».
Uno dei grandi problemi dell’Italia nel gestire gli sbarchi, lei scrive, è quello di considerare ogni soccorso come un caso a sé, negoziando di volta in volta. Quali sono le conseguenze di questa cattiva gestione?
«Purtroppo nel corso degli anni le cose sono peggiorate. L’Italia è un paese circondato dal mare e, fino al 2017, è stata la guardia costiera italiana a coordinare le varie operazioni di soccorso. Dopo la situazione è cambiata, perché chi era al potere ha intrapreso politiche di allontanamento nei confronti delle navi non governative. Basta ricordare il 2019, quando Matteo Salvini ha annunciato di voler chiudere i porti. In seguito questo atteggiamento ostile è rimasto in auge. E’ così che le imbarcazioni delle Ong iniziano a essere viste come luoghi in cui si commettono reati e non salvataggi di persone. Per questa ragione le attività di soccorso hanno subito processi di rallentamento nelle loro operazioni umanitarie. Tuttavia, bisogna ricordare che la legge del mare è sempre quella: la guardia costiera è obbligata a uscire per prestare soccorso in caso di naufragio. Quello che si è fatto è stato portare avanti una politica di criminalizzazione dei viaggi in mare e questo modo di pensare le cose ha radicato nell’opinione pubblica un forte sentimento di ostilità sia verso chi arriva sia nei confronti di chi porta aiuto».
Il caso Acquarius, la nave fatta attaccare a Valencia, nel 2018, con oltre 600 migranti a bordo, per lei rappresenta uno spartiacque nella storia dei soccorsi in mare: perché?
«Perché Matteo Salvini annunciò all’epoca su Twitter che avrebbe chiuso i porti e la nave non sarebbe attraccata. Purtroppo da quel momento in poi abbiamo visto un atteggiamento governativo sfavorevole nei confronti dei soccorsi in mare e si è andati avanti in questa direzione, anche se questo approccio viola leggi internazionali».
Sempre nel 2018, a suon di #portichiusi, quando Savini annunciò la chiusura dei porti italiani alle navi umanitarie, in realtà nessuna decisione ufficiale (decreti ministeriali) fu adottata a riguardo. Al tempo stesso, rifiutare l’attracco comporta la violazione di una serie di convenzioni internazionali. Perché, secondo lei, l’illegalità è quella che viene associata al lavoro delle ONG e non quella, invece, messa in atto da chi dovrebbe farla rispettare?
«In quegli anni è stata portata avanti da molti attori una campagna che voleva diffondere nella testa delle persone il messaggio secondo il quale le navi umanitarie collaborassero con gli scafisti. Accuse molto pesanti, quando loro stavano agendo secondo la legge. Nessun processo ha infatti dimostrato che le ONG collaborassero con i trafficanti di uomini ma, all’epoca, era comodo a livello politico fare intendere questo per giustificare certi comportamenti e prese di posizioni.»
«Da angeli del mare a collaboratori degli scafisti, da navi umanitarie a taxi del mare. In che modo la propaganda di certe frange politiche ci fa perdere di vista non solo la parte più umana di queste vicende ma anche i fatti reali, al netto della strumentalizzazione?»
«Ci sono molti responsabili, anche non istituzionali. Dal 2017 sono partire diverse inchieste sull’operato delle navi umanitarie sia a livello nazionale che internazionale. Da queste indagini è nato un atteggiamento ostile che è sfociato in una vera e propria politica anti-migratoria. Le fake news hanno cominciato a circolare e l’effetto si è allargato a macchia d’olio, producendo discredito verso le attività portate avanti dalle ONG. Nessuna accusa è stata confermata, ma il danno era già stato fatto all’interno di un’opinione pubblica che ha maturato sentimenti sfavorevoli nei confronti di chi prestava aiuto nei soccorsi in mare.
«Il caso delle unghie rosse di Josefa, sbarcata il 21 luglio 2018 a Palma di Maiorca, unica sopravvissuta al naufragio della barca su cui viaggiava, salvata da Proactiva Open Arms, è uno degli esempi più eclatanti della strumentalizzazione. Quali sono le principali ragioni della campagna di discredito nei confronti dei soccorritori?»
«All’epoca l’Italia stava finanziando la guardia costiera libica e i suoi centri di detenzione. Tuttavia la Libia non si preoccupava di mettere in salvo le persone, ma le abbandonava al loro destino. L’opinione pubblica aveva provato empatia per questa donna, ma l’attenzione è stata spostata sul fatto che, avendo le unghie dipinte di rosso, non poteva essere una profuga. Quindi c’è chi ha diffuso l’idea secondo la quale questo salvataggio fosse una messa in scena, una finzione. In questo modo si è smesso di parlare dei finanziamenti dell’Italia alla Libia, che erano stati voluti per arginare il fenomeno dell’immigrazione».
Il caso della Diciotti, la nave della Guardia Costiera Italiana al largo di Lampedusa per ben cinque giorni, nell’agosto dello stesso anno, con 190 migranti (a parte i 13 fatti sbarcare per gravi condizioni di salute), seconde lei mette in risalto alcuni importanti rischi: l’intervento di sponsorship private, della Cei o della Chiesa, per sbloccare l’impasse, il trasferimento dei richiedenti asilo verso Paesi extra Ue, la mancanza si un protocollo per la risoluzione delle controversie legate al soccorso in mare. Da cinque anni a questa parte è cambiato qualcosa?
«Direi che le cose sono peggiorate di anno in anno. La dimostrazione più eclatante è il naufragio di Cutro. Gli aiuti non sono stati attivati, nonostante l’imbarcazione fosse stata precedentemente individuata. Le persone hanno trovato la morte a pochi metri dalla riva e dei pescatori sono intervenuti per soccorrere i migranti».
Tra le accuse rivolte alle navi umanitarie, c’è quella di avere provocato un aumento dei morti in mare. Come stanno invece le cose?
«Il numero dei morti è legato al numero delle partenze. La pandemia ha avuto l’effetto di fare diminuire il numero dei morti, perché a loro volta sono diminuite le partenze. Finita la pandemia sono aumentati di nuovo i viaggi irregolari. Le partenze sono strettamente correlate ai “push factor” come guerre, carestie etc.., le navi umanitarie non c’entrano».
Qual’è stato il ruolo di Carmelo Zuccaro, procuratore generale di Catania, nel processo di criminalizzazione delle Ong?
«Il suo operato è stato molto discutibile. Ha sostenuto che le Ong fossero complici degli scafisti. Nel 2017 ha rilasciato interviste dichiarando di avere aperto indagini sui profitti delle navi da soccorso e che ci fossero appunto dei contatti tra le Ong e i trafficanti di essere umani. Dopo anni d’indagini, queste accuse sono decadute e il caso è stato archiviato, ma in quel periodo ciò ha contribuito a sviluppare sentimenti di ostilità verso le attività di soccorso in mare».