#10annidindifferenza, a Lampedusa l’anniversario della strage del 3 Ottobre: «Noi Ong salviamo vite, basta criminalizzarci»

Sono passati dieci anni, sono passati altri 28mila morti nel Mediterraneo, un numero al ribasso perché chissà quanti ce ne sono in fondo al mare. Sono passati #10annidindifferenza, dall’hashtag scelto da «A Europe of rights», l’evento organizzato dal Comitato 3 Ottobre e in corso in questi giorni a Lampedusa, dove siamo venuti anche noi. Piazza Castello, dove si tengono le tavole rotonde per ricordare che il 3 ottobre 2013, a poche miglia dalle coste di questa magica isola, morirono 368 persone in quella che viene considerata una delle più disastrose stragi di migranti, si affaccia sul Molo Favaloro, simbolo di naufragi, di arrivi ma anche di una narrazione dell’immigrazione fuorviante e dura a morire.

L’hanno analizzata, parlando di soccorso in mare, Rossella Miccio e Monica Minardi, rispettivamente presidentesse di Emergency e Medici senza Frontiere, messe a dialogare dalla giornalista di Repubblica Alessandra Ziniti.

«Le navi umanitarie – ha spiegato la prima – continuano a essere associate al pull factor, l’idea secondo la quale la loro presenza in mare favorirebbe le partenze dei barconi, quando invece studi italiani e internazionali dimostrano che, a far partire i migranti, sono i push factor, ovvero guerre, povertà, cambiamenti climatici. Va anche ricordato che la stragrande maggioranza dei salvataggi in mare è opera della Guardia Costiera e dei pescherecci, non delle navi umanitarie». Numeri alla mano, su 133mila persone sbarcate in Italia nel corso del 2023, solo 6mila sono state portate a terra dalle Ong.

Ma il tema è anche che, salvare vite, non può essere considerato un reato: «Non capiamo davvero come – ha aggiunto Miccio – davanti a questi argomenti si possano apporre questioni di principio o di parte politica. Per non parlare del fatto che, »col Governo Meloni, le navi umanitarie sono costrette a portare le persone salvate il più lontano possibile, con un dispendio di tempo ed economico incredibile ma soprattutto con la conseguenza che le persone, già stremate, sono costrette a rimanere in mare molti altri giorni ancora e che le nostre navi si allontanano, così, dalle zone in cui dovrebbero stare. L‘ultima volta, con la Life Support, siamo arrivati a Ravenna con 28 siriani. Avete presente dov’è Ravenna? Che differenza avrebbero fatto, 28 persone, in un porto della Sicilia in cui già approdano in migliaia?».

L’odio nei confronti del lavoro delle navi umanitarie delle Ong è la ragione per cui, ha raccontato Minardi, la soccorritrice Anabel Montes, per molti anni simbolo dei salvataggi in mare, ha deciso di cambiare vita: «Quando vedi e senti tutto quel dolore e poi, dall’altra parte, tutto quello scagliarsi contro, è difficile andare avanti. Eppure, se dall’inizio di questo Governo, già cinque decreti hanno tentato di ostacolarci, significa che esiste una vera paranoia. Così come è un diritto scappare da un Paese perché non c’è un futuro o si rischiano la fame, le persecuzioni o la vita, è un dovere salvare vite umane e offrire soccorso, perché non c’è una vita che vale più di un’altra».

A proposito della disperazione che spinge le persone a rischiare di morire in mare, Miccio ha raccontato la storia di un ragazzo e una ragazza siriani che si erano sposati per racimolare i soldi per pagare la traversata del Mediterraneo: «Invece di fare la luna di miele, hanno pagato dei trafficanti, sono arrivati in Libia e sono rimasti lì, subendo torture e abusi, per poi prendere il mare, che non avevano mai visto prima. Voi ditemi: quale può essere il livello di disperazione di una persona che fa tutto questo?».